Hart Crane, paralisi, movimento

Hart Crane, paralisi, movimento

Hart Crane, paralisi, movimento

 

Hart Crane, paralisi, movimento

Movimentata quiete, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers & Mariano Grossi©

Hart Crane, paralisi, movimento

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Hart Crane morì suicida a soli 32 anni, gettandosi da una nave nel Golfo del Messico. Ci ha lasciato le sue poesie sinestetiche nell’alternanza della frenesia e della stasi.
Ritroviamo paralisi e movimento nella sua descrizione del Ponte di Brooklyn in cui ogni stasi sembra rievocare il dinamismo e viceversa, in un intreccio sapientemente calibrato e ricco di sfumature semantiche. Il ponte è fermo, ma si segna il movimento dei gabbiani che scuotono l’alba, una delle tante albe gelide. Il riposo è increspato, la statua della Libertà si erge sopra una baia incatenata.
Le immagini che il ponte suggerisce hanno la tetraggine negli occhi degli spettatori che sono spettrali vele nell’abbondanza di figurazioni che devono essere archiviate (stasi). Poi arriva di nuovo il movimento dei giochi panoramici, le moltitudini, piegate e incurvate verso uno spare time accelerato e infinitamente inutile rispetto alla maestosità della struttura metallica, la cui curvatura simboleggia maestosa antitesi rispetto al piegarsi del cittadino newyorkese affrettato e alienato, e l’accelerazione che si ripete per poi portarci al passo dell’uomo sul ponte, sotto il sole, dove il movimento stesso diventa la metafora della stasi: “qualche movimento mai speso nella tua andatura, in modo implicito la tua libertà ti sta bloccando!” quasi a lanciare un grido d’allarme, un avvertimento all’uomo: perché correre se questo moto non significa progressione intima, spirituale?
Moto e stasi come metafore di qualcosa di più grande, di una libertà non riconosciuta, che vorrebbe muoversi e apparentemente lo fa, ma che, di fatto, rimane in catene.
C’è la paralisi joyciana dell’uomo contemporaneo immerso nella città, una stasi metafisica e interiore, una sofferenza mortuaria celata dall’apparente brulichio, dal movimento, dalla fretta del folle di una metropolitana e della sua stridula camicia che si gonfia nel suicidio.
Il mezzogiorno sembra colare sulla strada come una cosa viva, c’è un senso di profondo decadimento, di disagio, e c’è la tregua per poi risalire al suono dell’arpa che rievoca un senso religioso della fatica nell’allineamento delle sue corde, mentre il ponte stesso, antropomorfizzato e spiritualizzato, rievoca “il pegno del profeta, la preghiera del paria e il grido dell’amante”.
Insomma ecco l’uomo solo, sconfitto, anonimo, perso nella città, nei suoi rumori, la sua solitudine opaca e terribile, il suo dolore sotto la luce dei semafori, la sua fissità routinaria ed angosciata espressa e perduta nella lettura quotidiana di giornali e riviste che si tronca non appena gli ascensori lo vomitano nel trambusto metropolitano, nella città disfatta, mentre l’essere alienato sogna il soffice tappeto erboso delle praterie sopra un ponte che diventa un microcosmo di eternità.
Il modernismo si fonde con una certa vena romantica, la denuncia della condizione dell’uomo moderno di città non impedisce a Crane di condensare l’eternità nell’immagine del ponte di notte (Sotto la tua ombra presso i pilastri ho atteso; soltanto nel buio è chiara la tua ombra: in una ricerca studiata e voluta dei contrasti, quei contrasti che vive sulla sua pelle il cittadino newyorkese: buio/chiara), celebrare ed esaltare l’eterno immacolato sospiro delle stelle, la consapevolezza implicita della superiorità della natura, di quel sole che possiede, di quelle stelle eterne che sovrastano le miserie umane, di quella neve che sommerge il ferro, di quel tempo annuale che si fa ferroso e duro, e di quel fiume che come l’insonne, presta un mito a dio, del ponte che prende tra le sue braccia, in una reiterata antropomorfizzazione, la notte, glorificandola, forse unica cesura fin troppo breve del folle dinamismo di una metropoli che aliena ed estrania.

 

Hart Crane

Al Ponte di Brooklyn

Per quante albe, gelido dal suo increspato riposo,
le ali del gabbiano lo immergeranno e ruoteranno,
riversando bianchi anelli di tumulto, ergendo in alto
la statua della Libertà sulle acque della baia incatenata!
Poi, con inviolata curva i nostri occhi,
spettrali come vele che si incrociano,
abbandonano qualche pagina di immagini
che debbono essere archiviate;
-finché gli ascensori non ci scaricano dal nostro giorno…
Penso ai cinema, ai giochi panoramici
con le moltitudini curve verso qualche scena lampeggiante
mai svelata, ma reiteratamente acceleratasi,
preannunciata ad altri occhi sullo stesso schermo;
e tu, lungo il porto, a passo d’argento,
come se il sole prendesse possesso di te, sebbene lasciasse
qualche movimento mai speso nella tua andatura,-
in modo implicito la tua libertà ti sta bloccando!
Fuori da qualche sportello di metropolitana, cella o soffitta
un pazzo si affretta verso i tuoi parapetti,
inclinandosi là per un momento, stridula camicia che si gonfia,
uno zimbello cade dal muto carrozzone.
Giù al Muro, dalla trave il mezzogiorno cola nella via,
un dente a strappo dell’acetilene del cielo;
per tutto il pomeriggio le gru volate dalle nubi girano…
i tuoi cavi respirano la bonaccia del Nord Atlantico.
E scura come quel paradiso degli Ebrei,
la tua ricompensa…invero tu concedi approvazione
di anonimato che il tempo non può elevare:
vibrante tregua e perdono invero tu mostri.
O arpa e altare della furia fusa
(come potrebbe mera fatica allineare le tue corde che suonano in coro!)
terrificante soglia della promessa del profeta,
preghiera di paria e il pianto dell’innamorato –
ancora i semafori che sfiorano il tuo rapido
idioma non frazionato, immacolato sospiro delle stelle
che infilano come perline il tuo cammino-condensano l’eternità:
e noi abbiamo visto la notte sollevata nelle tue braccia.
Sotto la tua ombra presso i pilastri ho atteso;
soltanto nel buio è chiara la tua ombra.
I fiammeggianti pacchi della città tutti disfatti,
già la neve sommerge un anno di ferro…
oh, Insonne come il fiume sotto di te,
scavalcando il mare, il sognante tappeto erboso delle praterie,
fino a noi infimi talvolta estenditi, discendi
e della tua curvatura presta un mito a Dio.

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Hart Crane

To Brooklyn Bridge

How many dawns, chill from his rippling rest
The seagull’s wings shall dip and pivot him,
Shedding white rings of tumult, building high
Over the chained bay waters Liberty—

Then, with inviolate curve, forsake our eyes
As apparitional as sails that cross
Some page of figures to be filed away;
—Till elevators drop us from our day . . .

I think of cinemas, panoramic sleights
With multitudes bent toward some flashing scene
Never disclosed, but hastened to again,
Foretold to other eyes on the same screen;
And Thee, across the harbor, silver-paced
As though the sun took step of thee, yet left
Some motion ever unspent in thy stride,—
Implicitly thy freedom staying thee!

Out of some subway scuttle, cell or loft
A bedlamite speeds to thy parapets,
Tilting there momently, shrill shirt ballooning,
A jest falls from the speechless caravan.

Down Wall, from girder into street noon leaks,
A rip-tooth of the sky’s acetylene;
All afternoon the cloud-flown derricks turn . . .
Thy cables breathe the North Atlantic still.

And obscure as that heaven of the Jews,
Thy guerdon . . . Accolade thou dost bestow
Of anonymity time cannot raise:
Vibrant reprieve and pardon thou dost show.

O harp and altar, of the fury fused,
(How could mere toil align thy choiring strings!)
Terrific threshold of the prophet’s pledge,
Prayer of pariah, and the lover’s cry,—
Again the traffic lights that skim thy swift
Unfractioned idiom, immaculate sigh of stars,
Beading thy path—condense eternity:
And we have seen night lifted in thine arms.

Under thy shadow by the piers I waited;
Only in darkness is thy shadow clear.
The City’s fiery parcels all undone,
Already snow submerges an iron year . . .
O Sleepless as the river under thee,
Vaulting the sea, the prairies’ dreaming sod,
Unto us lowliest sometime sweep, descend
And of the curveship lend a myth to God.

.

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