Rido per non morire

Rido per non morire.

Rido per non morire

Rido per non morire.

Grottesco, credit Mary Blindflowers©

 

Rido per non morire

Mary Blindflowers©

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Poesie che giocano a rincorrere paroloni ricercati che sembrano messi sulla carta per sceneggiare un ruolo in cui il protagonista non sa né chi sia, né cosa stia di base dicendo, né dove voglia andare a parare. Cento e più mille cicirivendoli con avvitamento carpiato e tuffato in salsa più o meno rosa e blu, per descrivere un vile lampione a bordo strada con sovrabbondanza di immagini leziose che girano, fanno il saltino, poi ne fanno un altro, poi si legano le mani con lo spaguccio multicolor cercando di stare in piedi nel ciarpame e nell’inutilità mentre finisce che nemmeno l’autore si ricorda più cosa volesse dire, come, quando e perché, figuriamoci il povero lettore, così stordito e disorientato dal reiterato pleonasmo del senso, da simboli che si accatastano gli uni sugli altri creando, sia in chi scrive che in chi legge, uno stato comatoso irreversibile in cui la semplicità è abolita a favore di immagini che orpellano la fantasia e la ingombrano.
I poeti ormai si leggono solo tra loro, o fingono, perché di base sono noiosi e non parlano di nulla.
L’esercizio stilistico regge fino ad un certo punto, la lussureggiante scelta di sovrapporre immagini continue per indicare ciò che basterebbe una parola ad esprimere, alla fine stanca anche il lettore più coraggioso, che se è intelligente si domanda se l’eccesso di cripticismo condito dalla salsetta autoreferente che l’arte non si spieghi mai, serva più a nascondere il fatto che non si possa dire nulla ma soltanto giocare con il vuoto, per garantirsi una sorta di successo dell’innocuità e non essere esclusi da ogni gioco, oppure sia frutto di reale convinzione di far bene.
Siamo ben lontani dalla satira sferzante di un Ripellino che per quanto snob, almeno sapeva che per avere successo con o senza orpelleria a carico, occorreva e occorre ancora associarsi “a una consorteria di violinisti guerci, di furbi larifari”.
Oggi pare che non si possa più dire né la grossa editoria riesca a pubblicare più autori del calibro di Ripellino.
Si è passati dal curaro alla tisanina della nonna.
Siamo ai Pometti della sera, con l’appello e le domande innocue e nostalgiche alla mamma, tutto in prosa, ovviamente perché non esiste solo la poesia leziosa ma anche quella naive per il popolino, ciuf ciuf, questo è un trenino dei balocchi per farlocchi, forse…
Non mancano poi quelli che non accettano la rima e muovono la boccuccia schifati al solo pensiero di metter su due parole che rimino tra loro, ci mancherebbe! Roba pascoliana! Buona a condir minestre e taffetà del 1850! A Pascoli, gli schifatori di rime preferiscono i pascoli della prosa che scritta tutta nel carattere standard giustificato poi pensano di far andare a capo spezzando in più punti a casaccio, serie come faccio faccio, tanto è uguale, cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia, fa comunque pena. La gallina dunque canta e se l’uovo è d’oro e di nascita bene, basta scrivere una manciata di parole, giocarsi ai dadi la parola che deve scomodarsi per andare nella riga successiva, ed ecco premi e cotillons, stile cronaca della morta annunciata. La defunta ovviamente è la poesia.
La rima non è di certo necessaria nel versificare del Novecento ma può divertire.
Ecco, altra parola non consentita, il divertimento, di conseguenza il grottesco è totalmente bandito. Il tratto caratteristico del realismo dell’abbassamento, ossia il trasferimento dell’aulico celeste sulla terra, operazione cara a molta letteratura medioevale e rinascimentale, non è ammesso.
La poesia, specie in Italia, è vissuta come cosa seria, serissima, qualcosa per cui non si debba mai ridere, solo piangere ed emozionarsi seduti dritti dritti sulla punta più acuta della cima del Parnaso.
Arriviamo dunque agli intellettualoidismi, scrivere poesie, rigorosamente senza rima, magari in laboratori che censurano e scelgono perfino di cosa si possa e di cosa non si possa cantare perché occorre non disturbare nessuno e piacere a tutti.
Regola fondamentale del divismo degli intellettualoidi è offendersi per tutto. Mentre un poeta intelligente sa che non può essere perfetto, l’intellettualoide è dio. Come posa il piede in terra, fioriscono rose rosse e baccalà, tulle di broccato e falpalà con cui orna i capilettera del suo inimitabile capolavoro di scrittura. L’intellettualoide sembra fatto di carta velina, al primo tenue accenno di critica, si sfalda tutta l’impalcatura del sorriso di plastica della sua poesia fantastica. Le lievi e talvolta sincere marezzate, che poi spesso sono pure bonarie, crepano la struttura del vascello di carta e pan di zucchero fino su cui è steso tra i complimenti degli amici che come statuine semoventi o automi di cera, si complimentano e si liquefanno ma non riescono ad andare oltre la loro stessa liquefazione.
Rido per non morire, dice Fellag, e temo che abbia ragione.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

 

 

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