Paolo Volponi, asfissia poietica

Paolo Volponi, asfissia poietica

Paolo Volponi, asfissia poietica

Paolo Volponi, asfissia poietica

Dogs on leads, credit Mary Blindflowers©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Paolo Volponi, asfissia poietica

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I viaggi
non mi spaventano.
Anche se girassi
dietro la fortuna.
Farei solo dei passi.
Col piede
accanto a un sasso.
Ogni strada
ha un sasso
e una margherita.
Ed io vado
sasso per sasso
e colgo la margherita.

(Paolo Volponi, Poesie Giovanili)

 

Esempio mirabile di asfissia poietica (in senso etimologico, non crea un bel nulla dal nulla) formale e sostanziale questo miscarriage emotivo di Volponi che si perde in rime tautologiche dopo un timido tentativo variegato, (girassi, passi abortito in un duplice sasso, sasso) alternato ad assonanze in dentali medie (piede, strada, vado) per riavvilupparsi nella rima tautologica (margherita, margherita).
Ma non si comprende il messaggio: che attinenza hanno pietre e fiori con il mancato timore delle escursioni? Atteso che è tutto da verificare se in ogni percorso vi sia un sasso e una margherita, la smania della raccolta del suddetto fiore, che slancio comunicativo offre al lettore? Un rinnovato anelito al M’ama- non m’ama? Se scrivere poesie è comunicare, qui si attesta un totale fallimento contenutistico. Siamo sul versante poesie nemmeno troppo belline e che non significano nulla.
Ma Volponi che secondo Luzi sarebbe in grado di gettar luce sia dentro che fuori dell’io, (beato chi ci crede), sembra essere davvero un esperto di fritture d’aria servite su piatti bagnati in argento. L’assenza contenutistica si rinnova infatti anche in poesie più complesse e in cui si presume che l’autore abbia cercato, a suo infelicissimo modo, di attivare una ricerca, un percorso linguistico che però abortisce miseramente nel loop a doppio giro di boa per poi finire annegato nel nulla.
Ma leggiamo ancora:

 

L’amor di sé

L’alba ancora non lascia
l’ultima onda notturna;
ancora trattiene l’ambascia
di persistere sola, recisa
ogni corda l’aria stessa, la fascia
del proprio lucore indivisa
dalla tela nera che s’accascia
non dietro, ma sotto tra l’intrisa
minuta rena della sua diaccia
incerta orma, alterna, lisa
dalla sua labile irriverente traccia.
La direzione è opposta
al verso del piede che frena
e dello sguardo che accosta
trepido la prima spalla terrena
libera, non tesa una mano opposta
per indicare una scena
seppure piccola, appena opposta
alla nera matassa, alla vulva oscena
della notte, incinta, non deposta…
Ma spinta di fronte alla vista di sé
pallida stenderà la colpa
lucente alta sopra la testa
e si scioglierà in vapore dentro
l’imprendibile sabbia.
Niente l’assorbe né la desta
e solo l’onda notturna
più larga sotto la chiglia
della luna dentro la nuova urna
le toccherà un gomito e le ciglia
ancora lucide del rimpianto:
perla della conchiglia
dell’amore di sé.

(Paolo Volponi, Poesie 1946-1966)

 

Tecnicamente che linee sono queste che abbozzano delle rime alternate a singhiozzo in cui “notturna” trova la sua gemella tautologica distanziata di ben 24 versi? E “sabbia” che rispondenza trova? Così come quel “sé” nell’explicit? E che omogeneità hanno queste linee assonanti? Si parte con due settenari, poi arriva un novenario, dopo un decasillabo, un endecasillabo, un altro novenario e fermiamoci qui perché l’effetto bandiera continua ad libitum per tutto il componimento.
Il sorgere del sole, ci dice il poeta, non vuole abbandonare l’ultima onda della notte. Che immagine è? Il messaggio di uno spettatore indeciso tra il fascino dell’oscurità e la bellezza esplosiva della luce? A noi pare che al poeta interessi solo esplicitare la sua pervicace ricerca della assonanza alternata.
Che altro messaggio sottende questa fantomatica attribuzione della colpa all’alba? Di quale fallo si macchia sorgendo al mattino? Eccessivo auto-innamoramento tale da portarla ad assassinare il buio? A noi pare un ermetismo manierato che cerca alito su un tecnicismo piattamente rimaiolo.
Qui abbiamo una serie di immagini ad effetto lussureggianti con tendenza all’esagerazione antropomorfica (vulva oscena, notte incinta, non deposta) che denotano una certa avversione al femminino presente ovunque in questa poesia. Il participio di deporre che ricorda la deposizione rimanda a sua volta all’uovo, simbolo originario che rimanda alla nascita. Del resto la stessa alba la ricorda e la notte è gravida. Il poeta mostra una serie di simboli materni in negativo che girano più o meno armoniosamente quanto inutilmente su se stessi, per non dire nulla. Siamo immersi nella natura a cui il piede (simbolo fallico maschile) sembra ribellarsi (la direzione è opposta/ al verso del piede che frena). Di fronte alla vista del sé ecco la colpa pallida e lucente alta sulla testa che si scioglie in vapore, poi c’è tutto uno sfrigolio di conchiglia, ciglia e chiglia che fanno un effetto coreografico vistoso ma inerte. Il finale vede l’amore di sé come conchiglia, ancora una volta archetipo del femminile legato al rimpianto e alla negatività. La perla stessa che nell’immaginario collettivo è simbolo di bellezza, qui è legata all’amore di sé. Perfino l’urna e i simboli lunari sono tutti volti al negativo, denotano una chiara avversione al femminile. La luna infatti sta dentro un’urna, dentro una tomba. Questa poesia è la morte del femminile!
A noi sembra lo sfogo psicologico di un misogino o di uno che ha problemi irrisolti con l’elemento materno più che una poesia che voglia significare qualcosa perché poi tutta questa pomposa sequela di immagini, utili forse ad uno psicanalista, sembrano le associazioni mentali di un uomo che rifiuta la comunicazione in nome dell’artificiosità per offrire al lettore solo un vuoto impanato e fritto.

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