Langston Hughes, I too

Langston Hughes, I too

Langston Hughes, I too

Langston Hughes, I too

I papaveri, credit Mary Blindflowers©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Langston Hughes, I too

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James Mercer Langston Hughes (1901 – 1967) cantava le sofferenze dei neri americani. L’America bianca che oggi dice di “esportare democrazia” è nata sul genocidio dei nativi americani e sullo sfruttamento dei neri africani, costretti in schiavitù a lavorare le piantagioni del Sud.

Storia nota di diritti umani negati e di sopraffazione.

Hughes a metà Novecento ancora si trovava a dover affrontare problemi razziali:

I, too, sing America

 

I am the darker brother.
They send me to eat in the kitchen
When company comes,
But I laugh,
And eat well,
And grow strong.

Tomorrow,
I’ll be at the table
When company comes.
Nobody’ll dare
Say to me,
“Eat in the kitchen,”
Then.

Besides,
They’ll see how beautiful I am
And be ashamed—

I, too, am America.

In questa poesia racconta l’emarginazione, l’umiliazione di essere spedito a mangiare da solo in cucina perché i bianchi non gradiscono che un nero mangi con loro alla stessa tavola.

Questa è storia recente.

Questa è la democrazia americana, quella che bombarda la Siria nella quasi totale indifferenza dei media, troppo impegnati a vedere in Putin un novello Hitler e a creare schieramenti distrattivi nella gente comune sempre più confusa e malamente iper-informata di fake news.
Ma non divaghiamo, torniamo a Hughes. L’America democratica che questo poeta sognava, non esiste ancora.
Di recente, George Floyd, un afroamericano di 46 anni, è morto a Minneapolis, in Minnesota, dopo che un poliziotto gli ha tenuto il ginocchio premuto sul collo per alcuni minuti.
Questa è l’America, un Paese che semina morte nel mondo e in cui ancora si parla di “supremazia bianca”, un Paese in cui la sanità abbandona chiunque non possa permettersi un’assicurazione e in cui avvengono di continuo stragi in scuole e luoghi pubblici, grazie alla facilità con cui è possibile procurarsi un’arma. Da questi signori che non riescono nemmeno a garantire i diritti umani e la sicurezza nel loro Paese, l’Europa e non solo, prende lezioni di democrazia.
Chissà cosa direbbe oggi Hughes di fronte a tutto questo. La sua aspettativa rimane di certo ancora negletta e disattesa alla luce di quello che accade tuttora negli USA; le sofferenze per gli emarginati a causa del colore della pelle e dell’orientamento sessuale (Hughes era omosessuale), persistono tutt’oggi e a livello locale e a livello planetario, ed è veramente amaro riflettere sulle traversie e le rinunce che personaggi di attitudini creative e sensibilità intime come Hughes vivano anche nel 2022. Sono situazioni di rinuncia ed emarginazione come quelle patite dal poeta, che dovette emigrare in Messico e soggiacere alla volontà di un padre despota il quale gli impose l’iscrizione alla facoltà di Ingegneria, convinto com’era che il figlio non riuscisse a sopravvivere da coloured e scrittore.
Amarezza che cresce esponenzialmente man mano che ci si addentra nella lettura delle sue poesie, mai banali contenutisticamente, come quella soprariportata, e sempre eccellenti sotto un punto di vista formale, come la seguente , “The Weary Blues”, dove la perfezione degli endecasillabi baciati e degli ottonari a struttura e baciata e alternata e sciolta si mescola sapientemente all’atmosfera di rassegnata tristezza dell’osservatore, ammaliato dalla musica blues di un pianista di strada col suo stesso color di pelle, antinomicamente e paradossalmente chiamato con il termine “Negro”, quello sprezzantemente usato per marchiarne le differenze dagli aguzzini di entrambi:

 

The Weary Bues

 

Droning a drowsy syncopated tune,
Rocking back and forth to a mellow croon,
I heard a Negro play.
Down on Lenox Avenue the other night
By the pale dull pallor of an old gas light
He did a lazy sway…
He did a lazy sway…
To the tune o’ those Weary Blues.
With his ebony-hands on each ivory key
He made that poor piano moan with melody.
O Blues!
Swaying to and from on his rickety stool
He played that sad raggy tune like a musical fool.
Sweet Blues!
Coming from a black man’s soul.
O Blues!
In a deep song voice with a melancholy tone
I heard that Negro sing, that old piano moan—
“Ain’t got nobody in all this world,
Ain’t got nobody but ma self.
I’s gwine to quit ma frownin’
And put ma troubles on the shelf.”

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Rivista Destrutturalismo

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