Stefano dal Bianco, Paradiso?

Stefano dal Bianco, Paradiso?

Stefano dal Bianco, Paradiso?

Stefano dal Bianco, Paradiso?

Il premio Strega, disegno su carta telata by Mary Blindflowers©

Lucio Pistis & Sandro Adebès©

Stefano dal Bianco, Paradiso?

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Stefano dal Bianco, candidato con “Paradiso” al premio Strega, accademico, pare che insegni “poetica e stilistica” all’università anche se di poesie non ne ha mai scritte. Definire poesie i versi di “Paradiso”, tra l’altro pubblicato con Garzanti, è come mangiarsi un budino di riso andato a male e definirlo Saint Honoré. Perché?

Leggete:

Comincia così questo solstizio,
con un cane che gioca con un altro cane
e rimane, rimane a fissare
il piano sconfinato
e le macchie di giallo in lontananza
e il profilo dei monti
come se fosse un altro giorno, già trascorso
non più sollecitato
dalla brezza sul piano ma fermo
fermo nella stagione che si sporge.

Ritornerà pertanto, e riconoscerà
i segnali del vento, quello che non possiamo
non chiamare ricordo,
ricordo di qualcosa che un giorno
aveva mosso l’erba, come adesso,
aveva soffermato un cane in un pensiero.

Un cane che gioca con un cane e fissa il paesaggio di un giorno che sembra fermo, mentre la stagione si sporge. Penoso tentativo di metaforizzazione, di antropomorfizzazione e del giorno e della stagione, con l’attribuzione di verbi che si utilizzano per soggetti animati e non inanimati.
Il poeta prevede che la stagione ritornerà dai segnali del vento che è un ricordo, ancora l’umanizzazione del vento traslato in ricordo umano che ha mosso l’erba, esattamente come nel momento in cui si parla, il cane si sofferma in un pensiero.
Cosa comunica, in buona sostanza il poeta di così interessante?

Nulla, ovvio.

Questo vuole l’establishment, che non si dica nulla. In questo caso non è nemmeno motivato da versi accattivanti, dato che lo stile è di una sciatteria inenarrabile.
Avevamo davvero bisogno di un altro accademico che ci descrivesse un cane fermo e la metafora trita e abusatissima del vento foriero di ricordi?
Necessitavamo realmente di un professore che:

sovrabbonda in polisindeti e abbinamenti di dimostrativi e indefiniti ai relativi;
– evita l’asindeto prima della congiunzione avversativa;
– ne usa uno solo dopo la congiunzione deduttivo-conclusiva parentetica;
– fa slalom tra doppie negazioni e anafore, ingravidando il testo bisognevole di più congrua snellezza?

Ma veramente la poesia ha bisogno di questo?
Andiamo avanti nel leggere questo candidato allo Strega:

La soluzione temporanea
di tutta questa nuvolaglia indotta di pensieri
è stare a vedere una valle con il vento e sotto il sole
mentre il verde dei declivi
di collina in collina sovrapposti
si fa sempre più grigio di foschia
e finisce nel bianco
che confonde l’Amiata in lontananza con il cielo.

Stare a vedere è facoltà di tutti
ma ricavarne la chiarezza di un messaggio è privilegio
di chi si lasciasse intontire dal sole
scardinare dal vento e ritornasse
su di sé ma senza più visione
ora che tutto è perduto nel bianco lontano
e sale, sale da dentro la voce del mondo.

 

Anche qui notazioni paesaggistiche in prosa che va a capo, niente ritmo: si vede che quello ormai non è più di moda. Elementi fini a se stessi: la nuvolaglia, il vento e il sole, che non veicolano significati profondi. Puri elementi descrittivo-contemplativi: la collina, il grigio della foschia, il bianco con cui si confonde l’Amiata. Caspita! L’elenco del telefono è più interessante!
Poi ci illumina con la filosofia da salotto: tutti vedono, ma in pochi colgono la chiarezza del messaggio, solo quelli intontiti dal sole come lui o scardinati dal vento capiscono. Di solito si scardinano le porte, non le persone, vabbè, licenza poetica, ma che vuol dire la ramanzina del ritorno su di sé?
E anche qui rimaniamo perplessi nelle scelte grammaticali: quei due congiuntivi imperfetti coordinati tra loro in dipendenza da due dichiarative al presente indicativo suona di colloquialismo, laddove più congrui apparirebbero i congiuntivi presenti (lasci-ritorni); così come creano idea di una certa paupertas compositiva nella seconda strofa l’abbondante ricorso alla paratassi e la ridondanza delle avversative quando la subordinazione arricchirebbe congruamente lo stile.
Ancora una volta nulla, ma il “poeta” è accademico, quindi dovremmo chiamare quest’inferno di banalità e tritume stilistico, poesia. Ah, dimentichiamo! Insegna poetica e stilistica, il nostro. Satis dei!… (Continua su Destrutturalismo n. 7, previsto per luglio 2024).

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

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