Moravia, Dino è fra noi

Moravia, Dino è fra noi

Moravia, Dino è fra noi

Moravia, Dino è fra noi

Moravia, La Noia, Bompiani, 1960, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Moravia, Dino è fra noi

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Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle (Roma, 28 novembre 1907 – Roma, 26 settembre 1990), figlio di Carlo Pincherle, architetto e pittore veneziano d’origine ebraica, dà alle stampe nel 1960, La noia, edito da Bompiani.
Moravia, nonostante venga definito dalla critica accademica, uno dei più grandi scrittori del Novecento (definizioni che lasciano davvero il tempo che trovano), non è Kafka. Il confronto si risolve sicuramente a favore del secondo. Definire La noia un capolavoro è dunque più che eccessivo. L’alienazione che Moravia descrive e che ha come protagonista e dominatrice indiscussa la noia, è limitata ad una visione aristocratica del mondo. Siamo all’aristocrazia che critica e si nausea di se stessa ma non riesce ad andare oltre un’autocritica di stampo intimistico che esuli dal recinto della sua classe e da uno pseudo-dramma personale.
Dino è ricchissimo e annoiato. Un classico alienato che non ha bisogno nemmeno di lavorare per vivere e quindi ha il tempo per riflettere sul suo rapporto con soggetti e oggetti. Fin dall’inizio del romanzo, Moravia snocciola una serie di esempi per spiegare al lettore cosa intenda per noia, una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà, assimilabile ad una coperta troppo corta, al buio susseguente all’interruzione improvvisa di corrente elettrica. Si tratta di una malattia degli oggetti, immersi in una realtà insufficiente per tangere il soggetto che oggettivizza anche le persone, deresponsabilizzandosi. Moravia infatti non parla di malattia del soggetto ma dell’oggetto e questo è importante per definire quanto la sua “critica al borghese” che poi borghese non è, dato che il suo personaggio vive di rendita e non fa nulla da mattina a sera, mentre il borghese quantomeno lavora, sia blanda e poco credibile. Sono gli oggetti ad essere malati, anche se nel primo dialogo che il personaggio ha con Cecilia, si nota che Dino oggettivizza il soggetto:

 

… lei si offre a me come si offre qualsiasi oggetto. Prendiamo un esempio materiale: quel bicchiere, là sulla tavola non ha degli occhi belli come i suoi… eppure si offre né più né meno di lei… E io debbo rifiutarlo, come rifiuto lei, perché, come lei, quel bicchiere, è niente per me.

 

La risposta tranquilla di Cecilia è non meno alienata di quella di Dino:

 

“Ma perché è niente?” Questo detto con voce bassa e timida, quasi più a favore del bicchiere che di se stessa.

 

Il concetto di noia come perdita di relazione con oggetti-soggetti e con la realtà, è reiterato in molte formule diverse, in più parti del romanzo. In pratica Moravia lo ripete ossessivamente, usando però l’escamotage di camuffarlo stilisticamente con delle variazioni. Il contenuto rimane lo stesso, le parole cambiano. L’autore ci serve la stessa minestra, tagliando le verdure che la compongono in forme differenti, il sapore però rimane lo stesso.
Anche il rapporto con la madre è sottolineato dalle stesse domande: sono o non sono ricco? Siamo ricchi o ricchissimi? Per arrivare alla stessa conclusione. Dino non vuole ricordarsi di essere ricco dopo aver chiesto quanto è ricco (che ridere!), ma gode tutti i privilegi dell’esserlo. La madre infatti lo mantiene e gli paga anche i soggiorni a Cortina d’Ampezzo e altro. Quindi il “povero” Dino è depresso dall’esser ricco: “è una verità che mi deprime” dice alla madre, ma nello stesso tempo non può rinunciare ad essere ciò che è.
Il romanzo gira così un poco su se stesso, laddove la iterazione continua non appare poi così necessaria. Moravia però scrive per le masse, per il cinema, deve farsi capire, il linguaggio così diventa molto semplice, senza complicazioni, con tante spiegazioni. Anche i divi della tv ripetono spesso lo stesso concetto. Modo pratico per farsi comprendere anche dai duri d’orecchie.

Kafka invece scrive per sé, non spiega nulla, non ne ha del resto affatto bisogno e dunque si permette il lusso della meravigliosa iperbole surreale e di veicolare il suo messaggio con arte più raffinata, più sottile. Non ha infatti esigenze cinematografiche di semplicità il povero Kafka che non ha mai saputo d’esser Kafka. Delle masse non si dà cura. La purezza della sua scrittura è infinitamente superiore a quella di Moravia che invece subisce i condizionamenti del business, illudendosi da borghese com’è fino al midollo, di criticare la borghesia mentre invece parla dell’aristocrazia.

Kafka non ha nemmeno bisogno di descrivere i personaggi. Moravia ne sente la prosaica urgenza e si dilunga senza necessità, solleticando la pruderie, riproponendo anche dialoghi di Dino con la madre che ripetono e ripetono… Kafka è sintetico e ha una visione a 360 gradi del mondo, Moravia non va oltre il cortiletto dietro casa.

Dino somiglia a tanti artisti di oggi che continuano a godere dei vantaggi della loro classe nel momento stesso in cui la criticano e incarna il tipico ipocrita delle classi alte, privo di qualsiasi coscienza sociale, tutto concentrato soltanto sul proprio rapporto con il mondo esterno e sulle soluzioni anche estreme che adotta per cercare di risolverlo, dato che esiste soltanto lui e la sua depressione ridicola.
Dino è fra noi, oggi, nell’arte, nella letteratura, nel cinema, nella politica, insomma ovunque e vuole farci credere che dovremmo dispiacerci per lui, dovremmo compatirlo perché è ricco e domina il mondo.
La noia è un romanzo atrocemente finto che finge di criticare e di svelare, ma di fatto si risolve in un intimismo da salotto che non supera i recinti classisti, un’opera non esente da difetti che poteva essere risolta tranquillamente in un centinaio di pagine o poco più e ripete la definizione di noia come se il lettore fosse un ritardato.

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