Arte, vita, creazione, critica, U-topia

Arte, vita, creazione, critica

Arte, vita, creazione, critica, U-topia

Arte, vita, creazione, critica

Guadagnino, incisione originale 26/100, credit Antiche Curiosità©

 

Angelo Giubileo©

Arte, vita, creazione, critica

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U-topia sarebbe ciò che indica un luogo che non-esiste, e quindi un non-luogo che, in quanto tale, non occuperebbe uno spazio sensibile; ma, in qualche modo, uno spazio mentale. Per dire questa cosa altrimenti: un’idea, un modello, uno schema sia esso stesso individuale, sociale, politico o religioso. E quindi <qualcosa>, una qualunque <cosa> separata in qualche modo, secondo il comune buon senso, da ciò che cade sotto l’egida dei nostri sensi. Un qualcosa, dunque, che non-è e che, ancor prima, potrebbe non-essere.

Ed è qui, proprio all’interno di questa <possibilità> che si gioca ed è giocato il nostro de-stino di uomini; e cioè che una cosa, una cosa quale che sia, necessariamente sia e non possa non essere. Cosa che equivale esattamente a dire: non possa non assumere una forma sensibile. Gli antichissimi nostri progenitori – così li chiama Aristotele nella Metafisica – diedero a ogni <forma> un nome proprio e questi nomi non sono altro che i nomi stessi degli dei, cose o enti in qualche modo sensibili, come testimoniato e sintetizzato in modo impeccabile dall’arte letteraria di Ovidio.

L’artista comico Massimo Troisi, nell’opera interpretata dal gruppo La Smorfia e intitolata L’arca di Noè, chiede a Noè, interpretato da Lello Arena, di salire sull’arca della salvezza. Ma Noè gli risponde prontamente che sull’arca c’è posto solo per gli animali; e allora Troisi, con un giornale in testa a forma di orecchie, gli dice di essere un “minollo” e pertanto, se sull’arca non è ancora salito alcun minollo, egli stesso ha diritto ed è pronto a salirvi. Noè è assistito da Enzo De Caro, che interpreta Cam. Noè rivolto a Cam chiede se i minolli siano già saliti sull’arca e Cam risponde di sì. In un ultimo slancio, che allo spettatore-critico potrebbe sembrare disperato, Troisi chiede allora a Noè: E i rostocchi? Risponde De Caro: già ci stanno. Così che, a Troisi non resta altro che aggiungere: Ma come, pure i rostocchi? (rivolgendosi a Arena e indicando De Caro). Secondo me chisto ti imbroglia. Ovverossia: secondo me costui ti dice il <falso>.

Alla fine del secolo XVIII, il filosofo Immanuel Kant scrisse un’opera, La critica della ragion pura, prima pubblicata poi rivista, al fine di analizzare e ricercare la possibilità o meno di una metafisica come scienza scegliendo quale strumento la ragione; e quindi indagò la possibilità di strutturare una metafisica come scienza indipendentemente da ogni esperienza umana.

Il suo è stato un fallimento, ma un fallimento di cui l’umanità, in generale, non sembra voler prendere evidentemente <atto>. Il tentativo kantiano, dopo poco più di un secolo, fu rispolverato dal matematico Kurt Godel. Egli sostituì allo strumento della <ragione> lo strumento del <numero>, ma inevitabilmente approdò alle conclusioni ben note dei suoi due teoremi dell’indecidibilità. Per intenderci, basta un esempio e relativa spiegazione tratti da Nagel e Newman: In un mondo causale, i principi logici non concernono più la verità, ma l’azione: con 3000 lire compro un pacchetto di Camels, con 3000 lire compro anche un pacchetto di Marlboro, ma non tutti e due (…) E’ in corso una rilettura radicale dei principi logici, in relazione al loro significato fisico. Era certo il 1974 quando questo breve testo fu pubblicato, ma credo che lo fosse stato già prima.

E tuttavia, due sono almeno le stranezze che viviamo attualmente. La prima, relativa al fatto che sia la <ragione> che i numeri dominano sempre più il teatro o scena o spazio dei viventi, e in particolare, s’intende, l’uomo. La seconda, relativa al fatto che questi tentativi, invalsi attraverso l’uso preferibilmente o prevalentemente dell’uno o l’altro strumento, sono antichissimi. Infatti, la ragione è strumento antichissimo, ancor più della <parola>, indiscutibilmente vana, e del <numero>. E quindi? Nulla di nuovo sotto il sole? In un certo senso, sì: nulla di nuovo sotto il sole.

Parmenide, il primo philosophos e ultimo grande sophos dell’antichità, seppe tenere insieme, uniti, avvinti, inseparabilmente, la possibilità che una cosa sia e che non possa non essere. Il <tempo> e lo <spazio> insieme, indissolubilmente. Aristotele, pienamente consapevole di ciò, preferì tuttavia – come precisa nel De coelo – far leva, affidarsi a uno strumento. Ciò che è diventato <lo strumento della critica>, con il quale è giudicata l’<arte>. Ma, per fare questa operazione, lo Stagirita separò la potenza dall’atto, ovverossia la possibilità che una cosa diventasse o non diventasse quella cosa stessa. Follia. Sfidando la divinità di Aion – il tempo <eterno> o altrimenti l’<immagine mobile dell’eternità> di Platone – Aristotele si affidò, ancora una volta secondo il comune buon senso, a Xronos: forma astratta di un passato e un futuro, che perennemente fuggono il presente, destinato, nonostante la logica e i numeri, a restare incerto. Egli si rendeva dunque complice del più grave delitto già noto agli antichissimi, separare il <tempo>, che Platone chiamava Il Medesimo dallo <spazio>, “inventato” da Parmenide (De Santillana 1969), che Platone chiamava L’Irregolare.

Il 18 maggio scorso, l’artista Garau ha venduto a un’asta, per 15000 euro, una sua opera dal titolo Io sono. L’opera, come testimoniano i critici, è del tutto “invisibile” e pertanto rappresenta “il vuoto assoluto”. Ma, a parte il titolo in qualche modo comunque evocativo di qualcosa che sia un <Io> stesso e sul cui significato del verbo essere usato (<sono>) non vale qui la pena indagare, come v’immaginate voi il <vuoto>? E il <vuoto> <assoluto>? Suppongo che lo immaginiate piuttosto come un’assenza di <pieno>; così che le cose cambiano e ciò che sembrava un’assenza finisce per essere piuttosto una mancanza. Lo stesso Agostino sosteneva che il male non fosse altro che la mancanza del bene, senza poter però specificare esattamente cosa fosse l’uno, oltre che chiamarlo <Dio>, e quindi cosa non fosse l’altro. Ma, se questo approccio vi sembra troppo irto di difficoltà, valga allora, nel caso di specie, la semplificazione operata dal giudizio del critico: l’opera di Garau dovrebbe essere collocata in un’abitazione privata entro uno spazio libero da qualsiasi ingombro, dalle dimensioni di circa cm. 150 x 150.

La vita è arte e creazione. Giudicare l’arte è come giudicare la vita stessa. Serve al critico ma all’artista e alla vita dell’artista non serve affatto.

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Rivista Il Destrutturalismo

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Comment (1)

  1. Destrutturalismo

    Garau è solo la punta dell’iceberg della degradazione a cui è ormai giunto il grande marketing e bluff dell’arte contemporanea. Il critico non serve all’artista o all’arte ma al finto artista e alla finta arte per fare tanti soldi, confondendo letti sfatti, opere inesistenti, squali sottaceto, cessi sui prati, merda in barattolo e specchi dell’Ikea appesi nelle gallerie, con grandi opere d’arte. E andrà sempre peggio…

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