La culla degli ominidi©

La culla degli ominidi©

Di Mary Blindflowers©

La via giusta, credit Mary Blindflowers©

Il punto fisso è una mania primitiva, la culla degli ominidi, successivamente ereditata dalla tradizione e dalla filosofia della borghesia in ascesa e da tutte le grandi religioni monoteiste, le droghe più pesanti che mai siano state inventate.

L’uomo nasce solo e senza artigli in un mondo pieno di pericoli, ha freddo, ha fame, sete, è un animale nudo, ha dunque un disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa che lo aiuti a vivere, a sopportare la durezza dell’ambiente in cui si trova proiettato suo malgrado dopo la nascita che non ha chiesto, non ha voluto, ma gli è stata imposta.

Dal buio alla luce, dall’immagine allo specchio di se stessi, si sviluppa così l’idea della vita come dono che proviene dall’alto, concezione priva di qualsiasi senso logico. Di solito chi ti dona qualcosa infatti, non lo rivuole poi indietro. Il regalo è precario, instabile, ha bisogno di forza, di coraggio. L’idea della roccia stabile su cui adagiarsi per riposare tranquilli, è rassicurante. Nascono così i miti con le loro storie fasulle che imitano il vero storcendolo, per consolare della morte e giustificare ipotesi di possibilità in nuce, diletto del sognatore passionale.

L’uomo non ammette di farsi spesso trascinare dalla corrente degli eventi e delle situazioni, o delle amicizie o delle sue stesse passioni, perciò si giustifica indicando col dito il punto da cui tutto dovrebbe partire, quello da cui si dipartono i fili, quello che immancabilmente e in modo infallibile, indica la via giusta da seguire, la verità assoluta. Che poi questa verità nella realtà non esista, poco importa. Il punto che etichetta tutti e dà loro una giusta collocazione a seconda della distanza che li separa dal punto medesimo, è ormai dentro la carne dell’uomo, e cataloga, imbriglia, pensa senza pensare, deduce e produce senza produrre, dentro schemi mentali assurdi.

Ciascuno ha così un posto ben assegnato nel mondo, che è suo, suo soltanto, e guai a chi si muove, l’immobilità regna sovrana nel mondo delle catalogazioni.

Così accade che il punto diventi così potente da pretendere di influenzare le coscienze senza che queste neppure se ne accorgano, e ci riesce anche.

Il punto domina ovunque, in qualsiasi campo.

Domanda: qual è il vostro poeta preferito? Risposte: il migliore è senz’altro questo o quello, nostro amico, unico, solo insuperabile maestro.

Un’onda di simpatie personali invade pareri di preferenza chiaramente poco obiettivi. Le risposte inquietano, non tanto perché si segue l’onda della passione e dell’amicizia tra uguali, bensì perché si risponde secondo schemi di etichettatura primitiva: “il migliore”, il punto di riferimento.

La poesia non è forse una libera espressione di genio?

E la libertà ha bisogno di catalogazioni? Ha bisogno del “migliore” o del “peggiore”?

La poesia non ha casa, non ha punti, non ha tassonomie, perché allora costruirle un muro attorno?

Dire “il miglior poeta” citando un amico, attiene non solo ad un discorso di parte da un punto di vista critico, ma anche inutile per la valorizzazione dell’arte poetica, che non ha affatto bisogno di classifiche.

Ogni tanto nei blog leggo anche la top ten dei migliori libri di tutti i tempi, oppure dell’anno passato. Ma perché voi, gentili e infaticabili lettori, avete letto tutti i libri di tutti i tempi per poter dire che quelli nella vostra classifica siano i migliori in assoluto? Oppure avete letto tutti quanti i libri pubblicati nel mondo in quel dato anno per poter dire che quelli da voi indicati siano il top?

Queste classifiche, che di solito si occupano di libri pubblicati da editori piuttosto importanti (ma che curiosa combinazione), lasciano il tempo che trovano e mettono anche un poco di tristezza.

Inoltre a chi dice: “quello è un poeta insuperabile”, viene mai in mente che forse può non aver nemmeno letto tutto di quel poeta e che quello stesso poeta può benissimo, specie agli esordi, aver scritto anche cose brutte?

La poesia come le arti in genere, è un percorso di crescita, si migliora, ci si impratichisce, sia stilisticamente che contenutisticamente, è nell’ordine naturale delle cose. Fa parte del gioco.

Lo stesso principio che ci spinge a catalogare “dal migliore al peggiore”, è, per tornare all’esordio di questo nostro discorso, un punto primitivo, ossia l’esigenza di avere un riferimento stabile, anche se tale riferimento magari si è evoluto con il tempo e ha prodotto lavori apprezzabili ed altri meno godibili. Così il cantante, lo scrittore, il poeta, il pittore preferito diventa “il migliore”, il dio, il capobranco.

Ma siete sicuri che dio esista? A volte poi i capobranco vengono uccisi da animali più forti.

L’unica cosa certa è che il procedimento mentale che ci spinge a fabbricare miti vicini e lontani, è lo stesso che invoglia a credere in dio, perché fa parte di una primaria esigenza di consolazione, di culla in cui stare sereni circondati da amici o persone che si vorrebbe far diventare tali, all’ombra di vantaggiose, assurde, chimeriche ma sopratutto inutili catalogazioni.

Assimilare il preferito al migliore che poi è un dio, è un’operazione che attiene all’infanzia dell’umanità, quasi inconscia, innaturale e proprio per questo assolutamente irrazionale.

C’è gente che scrive e gente che fa altre cose pensando di scrivere; ci sono blogger che cercano di farsi notare dai grandi editori stilando classifiche dei loro libri, altri a cui non importa nulla perché non sentono l’urgenza della fama; ci sono amici degli amici che giudicano divino tutto ciò che fanno gli amici, e altri che criticano perfino e giustamente se stessi. Tutto in definitiva è semplice da capire e si riduce a questo. Perché complicarci la vita?

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