Il Principe di Sicilia

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Il Principe di Sicilia

Il Principe di Sicilia

Il guanto, credit Mary Blindflowers©

Il Principe di Sicilia

Angelo Giubileo©

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Il nipote del principe di Salina soggiunse: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Ma, Tancredi, da chi aveva ascoltato queste parole? Era stato davvero lui il primo a pronunciarle, con ammirevole e indubitabile sagacia? In fondo, essendo nipote del principe, aveva senz’altro modo di saperne di più di tutti coloro che giacciono da sempre sottomessi alla logica del comune buon senso.

Che cosa avrebbe poi il buon senso a che fare con la logica, non è cosa affatto facile da capire. E tanto più cosa sia codesto comune buon senso, a cui ogni madre e padre, naturale e non, sembra fare costantemente richiamo. Quanto alla logica, non c’è alcun dubbio che essa sia fiorita e sbocciata per mezzo della parola. E da allora, tempi immemorabili, abbia in fine perduto la sua radice divenendo un fiore piuttosto avvizzito.

Tancredi però sapeva che anche questo tempo trascorso della parola aveva caratterizzato i destini degli uomini a lungo. Molto a lungo, per un tempo di svariati millenni, ben oltre il tempo calcolato da tutti coloro, re regine e abati e astronomi, che avevano già da tempo seppellito molte delle parole degli uomini e, selezionatene solo alcune, le avevano preservate in cataste di documenti o scritture, conservate nei loro scrigni segreti, ma pur sempre pronte a uscirne fuori. Quasi come una sorta di rievocazione del mito di Pandora.

Tancredi sapeva inoltre che lo stesso filosofo, di nome Platone, aveva ritenuto che un mondo, per così dire, stesse finendo; che gli uomini non avrebbero più trasmesso agli altri la memoria di ciò che era stato, mediante leggende, filastrocche e racconti di cui talvolta, anzi spesso, essi stessi non ne capivano il vero significato. Questo, essenzialmente, era il vero senso della tradizione, di madre e padre in figlio, che rischiava di scomparire. Sì, proprio così, infatti il filosofo non era affatto convinto che la documentazione scritta avrebbe potuto trasmettere adeguatamente il vero messaggio e quindi il vero significato di un’intera tradizione, finora abilmente custodita e tramandata sotto forma del linguaggio del mito.

Mithos e logos rappresentavano dunque due strumenti diversi al servizio della tradizione. Alla mente del filosofo sembrava assurdo che il logos o, come si diceva, il verbo o, peggio ancora si diceva, la parola avesse potuto testimoniare con vera fede il passato, e non solo. Ciò che era in gioco era il destino stesso dell’essere. Nient’altro che <Il Medesimo>, da sempre. In fondo, un altro filosofo prima di Platone, un certo Eraclito aveva parlato appunto del logos, la parola, come del tratto fondamentale dell’essere; così come un altro filosofo ancora, Parmenide di Elea, aveva parlato allo stesso modo della giustizia. E allora, aveva pensato Platone: perché non provare invece con il termine idea?

In pratica, sembrava già evidente che la memoria dell’essere, e della tradizione, stentasse a conservare il vero significato di ciò che il primo tra tutti quegli scrittori greci, di nome Anassimandro, aveva definito piuttosto χρεών.

Chiusa nello spazio di un termine, da < a >, che il comune buon senso di allora pretendeva già universale, la parola avrebbe senz’altro finito per distruggere la memoria del passato e quindi la tradizione stessa legata all’intero nostro essere, alla presenza degli uomini nel mondo o cosmo di allora, che sarebbe diventato un universo prima e una serie di universi paralleli poi, e chissà cos’altro ancora in futuro.

In definitiva <Χρεών> era ed è – pensò Tancredi – un termine in qualche modo indefinito, già tradotto con il significato sia di fato, destino, necessità che di opportuno, giusto, conveniente. E infatti, se Platone aveva usato il termine riferendosi in qualche modo alla prima gamma di significati; Parmenide al contrario aveva usato il termine facendo appunto riferimento al significato di <giustizia>, esattamente χρεόν, nella diversa forma o espressione della lingua ionica.

La stessa forma della parola era già cambiata – da ό a ώ – e, con essa, cambiava il significato che si pretendeva da essa racchiuso. Nel frattempo, però, Tancredi continuava a ripetere a se stesso che “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. In fondo, Tancredi continuava a essere e a pensare come un rivoluzionario. Dalla torre del suo castello, la splendida residenza estiva di Donnafugata, egli osservava il moto rivoluzionario degli astri, che – secondo gli uomini e al tempo subentrato degli dei – fissava la legge ciclica del tempo, e non viceversa quella invece eterna della natura. E dunque Tancredi sapeva benissimo che ciò che davvero cambia ritorna sempre uguale a se stesso, esattamente <Il Medesimo> a cui gli uomini avevano dato erroneamente il nome di <Tempo>, ma confondendolo e sovrapponendolo all’<essere>, tutto intero e unico, della Natura che: <è>.

E pertanto, Tancredi sapeva che ogni cambiamento era ed è un’illusione o un inganno. Se il comune buon senso suggeriva una forma di cambiamento, sarebbe stato conveniente adeguarsi; anzi, propugnare in qualche modo il cambiamento voluto, attualmente auspicato, dato che tutto sarebbe rimasto com’era e com’è, e quindi, altrettanto, come sarà.

“Munnu ha statu e munnu è”. L’antichissimo detto siciliano affondava le radici nel solco del più antico mare di Sicilia, lo stesso Mediterraneo che frotte intere di navigatori, provenienti sia dall’uno che dall’altro limite o colonne d’Ercole dell’est e dell’ovest, avevano solcato almeno 7.500 anni prima. E delle cui tracce gli abitanti di Lipari erano ancora testimoni. Così che al principe Tancredi, nelle giornate d’estate, dall’isola di Salina, posta a nord esattamente di fronte alla più grande delle isole di Eolo, bastava solo qualche bracciata in più a nuoto, in effetti solo tre miglia circa di mare, per ammirarle. E rammemorare l’epica delle gesta di chi si recava in quell’isola, dalle opposte terre del sorgere e del tramonto del Sole, anche per commerciare il bene allora assai prezioso dell’ossidiana, più prezioso senz’altro della più comune e meno tagliente selce.

Non era stato forse lì, in quella più ampia terra dell’intera Sicilia, e ancor prima in quel mare dell’intera Sicilia, che era nato il mithos? Questo è ciò che dicevano tutti, ma a Tancredi la cosa interessava assai poco. Infatti, sia il mito che la parola rappresentavano la storia e le storie volute dagli uomini, e quindi incapaci di rappresentare la vera storia o l’intera storia della natura, medesima, dell’<essere>, tutto intero, a cui anch’egli aveva ricevuto il <destino> innanzitutto di far parte e quindi, amleticamente, l’opportunità o meno di continuare a far-ci dimora.

Gli uomini hanno sempre imparato a giocare con le parole – ed è in fondo a questo che si riduce ogni insegnamento di qualsivoglia profeta o maestro -, come in qualche modo pensava lo stesso Eraclito parlando del medesimo <fanciullo della tradizione>, la cui immagine risale fino a Kullervo, lo sfortunato figlio di Kalervo, o chissà quale altro eroe eponimo ancora più antico e di cui i testi scritti hanno fatto senz’altro più difficoltà a conservare eventualmente la memoria. Così come per tutti i fatti, più o meno significativi, tutti però inesorabilmente accaduti.

Così come accadde che i pensieri di Tancredi furono interrotti dall’avvento di un tale, altresì noto al comune buon senso come un sedicente menestrello o cantastorie, ma al principe invece come un poeta di corte. A differenza dei parolieri – e in genere di tutti gli scrittori, compresi i letterati e i filosofi ad essa sempre più spesso dediti -, Tancredi apprezzava tutti i <poeti>, veri e non sedicenti tali.

Poeta è termine che deriva dal verbo greco ποιέω, il cui significato essenziale – e questo Tancredi lo sapeva benissimo – era ed è <fare>. E dunque cosa facevano i poeti per attirarsi le simpatie esclusive del principe? Assumendone il nome, essi prendevano parte in modo onesto, e quindi veritiero, alla narrazione dell’essere. I poeti riconoscevano che loro compito unico ed essenziale fosse soltanto quello di fare senza arrogarsi la pretesa invece di dire ciò che l’essere <è>. I poeti riconoscevano cioè, in virtù del nome proprio assunto, l’incapacità dell’intera specie umana di dire una parola circa la natura dell’Intero, a cui non serve alcuna testimonianza se non la testimonianza di Sé (Il) Medesimo. Nel loro genere, i Poeti – i poeti veri – fanno ma non dicono nulla. Nel senso che non racchiudono mai un significato, quale che sia, nello spazio ristrettissimo di una o più parole, quale che sia o che siano.

Al contrario degli sciocchi e insulsi letterati e cronachisti del <tempo>, tanto più stupidi di un qualunque misero o ignaro menestrello o cantastorie che, pur non comprendendone il significato, continuava e continua a ripetere la storiella che chi nel tempo prima di lui ha appreso e ora allo stesso modo gli trasmette. Creare o fare la verità, questo pensano gli stupidi; invece che fare, tramandare e quindi ripetere – consapevolmente o inconsapevolmente che sia – sempre la stessa antichissima storia che narra “l’enigma dell’essere”.

E così il Principe, nell’attimo stesso in cui l’immagine del poeta si appalesò al suo cospetto, capì che “fintantoché l’essere avesse mantenuto anche in futuro l’essenza dell’uomo, all’uomo non sarebbe toccato in sorte altro che poetare l’enigma dell’essere”. Questa è la storia del principe Tancredi, che ancora oggi si racconta anche in un piccolo villaggio tedesco di nome Todtnauberg.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

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