Camillo Nalin, poeta veneziano

Camillo Nalin, poeta veneziano

Camillo Nalin, poeta veneziano

Camillo Nalin, poeta veneziano

C. Nalin, Pronostici e versi, G. Scarabellini, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Camillo Nalin, poeta veneziano

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Di recente mi sono imbattuta in un libro di Camillo Nalin (Venezia, 1788 – Venezia, 1859), stampato dall’editore veneziano Scarabellin, titolo Pronostici e versi, senza data, con una bella copertina sui toni crema, verde e nero. Il volume si compone di 639 pagine più indice.
I pronostici sono una divertente parodia dei lunari dall’anno 1831 al 1843, seguiti dai versi de El regno imaginario; Novelle; Varie e per nozze; L’Aristodemo, tragedia del Cav. Vincenzo Monti ridota in dialeto venezian; Poesie varie; Versi per ocasion; Canzonetta per musica; La Festa veneziana dei pugni fra Castelani e Nicolotti Poema Bernesco; Poesie inedite giovanili; Per l’album della contessa Orsola; Descrizion de un viagio; Letera del mio putelo; Circolare direta a le Signore; Scherzo; Elogio al cagar; Appendice e Indice con tutti i titoli delle singole poesie attinenti le varie sezioni del libro.
In Letture di famiglia, opera illustrata che si pubblica in Lloyd austriaco, annata III, Trieste, 1854, a p. 38, in un articolo dedicato ai poeti dialettali, si legge: “Tra i poeti viventi meritano particolare elogio Camillo Nalin, veneziano autore dei Pronostici e della parodia dell’Aristodemo”, sostenendo che sia il Nalin che Tommaso Semmola di Napoli, non venivano tradotti e non si aveva interesse a renderli “noti e popolari alla propria nazione tutta e ad altre”, poi si aggiunge “non so quanto vada bene”.
Nalin fu anche lodato dal Tommaseo e considerato da Bartolomeo Gamba, poeta “di singolar fantasia”, tant’è che lo incluse nella Raccolta di poesie in Dialetto veneziano, Venezia, coi tipi di Gio’ Cecchini, 1845, p. 514.
Eppure oggi pochi conoscono Nalin, vuoi probabilmente per gli argomenti licenziosi che si trovava ad affrontare, per la satira pungente oppure per il fatto che scriveva in dialetto, anche se comprensibilissimo, è tuttora veramente poco conosciuto.
Poeta divertente, mette in luce gli aspetti apparentemente meno poetici del vivere quotidiano:

 

Atenti, le suplico
Che voi se gh’è caso
Andar un fià al pascolo
Sul Monte Parnaso;
Materia vastissima
Za trita e ritrita
Che a grandi che a picoli
conserva la vita;
Me spiego in vernacolo
Mi voglio tratar
Sul gusto magnifico,
Sul don del cagar…

 

In Elogio al cagar, Nalin sostiene ironicamente, che tra gli uomini c’è chi loda la causa e chi l’effetto ed egli si annovera tra questi ultimi perché, al mondo “no ch’è / né xe presuminile/ Se possa mai dar/ Un gusto più classico/ De quel del cagar…”, atto insuperabile ed insuperato senza il quale nessun uomo e nessuna donna possono campare, essendo attività essenziale che val più dei chiassi, delle feste, dei teatri, dei bei vestiti, dei lustrini, della passione, delle cariche, dei titoli, etc. Lo scopo dell’uomo è mangiare per poi sgonfiarsi la pancia. Il fine ultimo è quello del cagar senza il quale si crepa “da martire/ in mezzo ai dolori”,/ Novelo Tiberio/ Che a un regno imponendo/ L’è morto fra i spasimi/ Cagar no potendo…

La metafora dell’atto nasconde in realtà sotto l’apparenza ludico-giocosa, la volontà di denuncia delle vanità mondane, una sorta di realismo scherzoso in cui l’atto della defecazione accomuna tutti: “Solevo ai mortali/ Che sia inseparabile/ Dai beni e dai mali/ L’è un ben che xe proprio/ De beli, dei bruti/ Dei richi, dei povari/ L’è gusto di tuti…
Una sorta di democrazia del cagar in cui tutti gli uomini sono uguali.
Nalin sembra ammonire il lettore contro la vanagloria e l’inutilità di ogni posa di sublimità posticcia, dato che la carne e la struttura degli esseri viventi, sono costruite in modo che essi tendano a far tutto per mangiare e dunque, di conseguenza, prosaicamente cagar.
Non usa mezzi termini, niente eufemismi, è esplicito nel dir questo, zero parafrasi o circonluzioni delicate per nascondere gli odori che sembra al contrario, esaltare come veicolo della natura mortale dell’uomo, del suo legame con la terra.
Il riferimento iniziale al Monte Parnaso non sembra essere casuale e anche la sottolineatura che ogni azione umana finisca con una liberatoria defecata, serve a rafforzare la tensione verso il basso. I paragoni degradanti della materia, in cui la raffinatezza e l’opulenza di immagini lucenti, si trasforma inevitabilmente nello scarto e nel buio che rimanda al pertugio pronto a liberarsi, cela l’ironia nei confronti dei letterati, degli ingordi, dei potenti, dei raffinati, degli illusi del vivere quotidiano, ignari del fatto che tanto a tutti tocca la stessa sorte, volenti o nolenti, il cagar, con quella metamorfosi naturale che cambia le torte e i budini in materia fecale. C’è un pessimismo che corre insinuante sotto l’apparenza di una superficie comica che del resto è il preludio a riflessioni più profonde. Il confine tra comicità e disillusione diventa man mano che si legge, sempre più sottile, il tono sempre più incalzante e diretto verso una meta ciclica e un poco ridicola: vivere, mangiare, cagare, e poi ancora vivere etc. in un ciclo infinito in cui non si fa altro che nascondere il fine con l’artefatta speranza dell’essere o dell’avere. Chi scrive è un disilluso. Lo scarto diventa metafora di un discorso più ampio sul potere e sulla aleatorietà delle vite umane.
Non c’è religione o potenza che possa cambiare il destino universale che accomuna tutti, perché la merda è la conclusione di tutti i festini.
E la stoccata finale attende il lettore ignaro. L’autore dice che tutto questo movimento elogiativo della materia crassa ha un suo senso, una sua morale precisa ma non sarà davvero lui a trovarla, data l’indole dell’argomento. Rivela di non aver proprio voglia di spiegazioni al suo estro creativo, lascia il compito di farlo ai tanti chimici che hanno “buon naso”.
Lo stile è spumeggiante, prevalentemente in rima alternata, veloce, ritmicamente divertente.

Nalin è un poeta che andrebbe riscoperto.

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