L’Ottocento ci ha rovinato

L'Ottocento ci ha rovinato

L’Ottocento ci ha rovinato

 

L'Ottocento ci ha rovinato

Vetri infranti, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

L’Ottocento ci ha rovinato

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Il descrittivismo narrativo ottocentesco e dei primi del Novecento, che nelle stesure dei romanzi contemporanei viene spesso abolito, aveva lo scopo di introdurre il lettore nel mondo dei personaggi che si intendeva rappresentare ma anche quello di eviscerarne l’ego.
Romanzi come Cosima di Grazia Deledda (pubblicato postumo nel 1937), I promessi sposi manzoniani (prima versione 1827) o Cime tempestose della Brontë (1847), giusto per citare qualche esempio, utilizzano la minuziosa descrizione dei particolari come tecnica narrativa che ha lo scopo di veicolare stati d’animo e situazioni e di immergere il lettore in note ambientali tipiche e storicamente attendibili.
La fisicità dei protagonisti offre la misura della loro personalità.
L’aspetto trasandato e rude di Heatcliff dà l’idea delle passioni contrastanti che gli si agitano dentro nel suo processo di inclusione-esclusione da un mondo classista che lo respinge continuamente, sottolineando la diversità del suo aspetto fisico, è scuro come uno zingaro che sa di fango e polvere selvaggia, mentre gli altri personaggi sono lindi e pinti, stucchevolmente imbalsamati in un privilegio di classe che aveva tra le altre cose, anche lo scopo di salvare le apparenze.
La casa cinquecentesca dove si entra con un solo passo, priva di corridoio, con la porta principale decorata di putti e grifoni gotici, e il luccichio delle casseruole di rame della cucina, riflette perfettamente il contrasto ombra luce che ritroviamo esattamente nell’interiorità dei protagonisti principali, per non parlare poi della solidità della casa, simbolo e metafora della costruzione sociale che resiste all’impeto della passione travolgente istintiva (il vento).

Lo stesso dicasi delle descrizioni manzoniane, perfino i nomi dei protagonisti riflettono caratteristiche morali, Lucia è Mondella, ossia monda, pura, portatrice di verità semplici. Poi la famosa descrizione di apertura del romanzo che ha tediato generazioni di studenti, “quel ramo del lago di Como”, trionfo dell’eccesso, sembra quasi leggera e ariosa rispetto al Malombra di Fogazzaro, tutto interrotto da puntigliose descrizioni d’ambiente. Un melodrammone pesantissimo in cui tra un particolare e l’altro, forse il povero lettore riesce a capire la trama.
E che dire dell’insistito descrittivismo di Cosima, il romanzo autobiografico della Deledda?

La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po’ basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l’ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello. La stanza a sinistra dell’ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come le altre, un camino col pavimento battuto. Null’altro. Un uscio solido pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e d’intimità.
C’era il camino, ma anche un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra: e sopra, ad altezza d’uomo, attaccato con quattro corde di pelo, alle grosse travi del soffitto di canne annerite dal fumo, un graticcio di un metro quadrato circa, sul quale stavano quasi sempre, esposte al fumo che le induriva, piccole forme di cacio pecorino, delle quali l’odore si spandeva tutto intorno. E attaccata a sua volta a uno spigolo del graticcio, pendeva una lucerna primitiva, di ferro nero, a quattro becchi; una specie di padellina quadrata, nel cui olio allo scoperto nuotava il lucignolo che si affacciava a uno dei becchi. 

Esattamente come la Brontë, la Deledda descrive e si sofferma sui particolari della casa, sfiancandoci con le descrizioni.
Questo perché la psicologia nei romanzi ottocenteschi era veicolata dal descrittivismo.
Il punto di vista è esterno e non interno, ciò crea un effetto “freddo”, una sorta di distacco tra il narratore e ciò che si osserva.
Il descrittivismo lineare ha talmente permeato le coscienze dei lettori che oggi si giudica di difficile lettura qualsiasi romanzo privilegi il flusso di coscienza e che proponga un modello metafisico interno di interpretazione della realtà (monologo interiore) su piani intrecciati e mutevoli dove i dialoghi diventano simbolici e allusivi, le descrizioni brevi e talvolta iperboliche, per dare un senso di esagerazione che tracima dalla pagina scritta, significando al di là di ciò che è detto.
Dopo Joyce sembrerebbe assurdo che un editor dicesse ad un aspirante scrittore: “Non ti pubblico il romanzo sebbene sia interessante e ben scritto, perché non è lineare”. Eppure accade quando si è legati ad una mentalità ottocentesca della letteratura.
L’Ottocento ci ha per certi versi, rovinati.

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