Pindaro e Ierone, modello adulazione

Pindaro e Ierone, modello adulazione

Pindaro e Ierone, modello adulazione

Pindaro e Ierone, modello adulazione

Vetri antichi, credit Mary Blindflowers©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Pindaro e Ierone, modello adulazione

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Ci siamo addentrati nell’articolo precedente (qui) sul fenomeno del mecenatismo a Roma, evidenziando il progressivo virare di letterati come Virgilio ed Orazio da una fase cosiddetta individuale e meditativa a una programmatica svolta propagandistica imposta dal potere costituito. Svolta decisamente palese e smaccata in Orazio con le cosiddette Odi Romane, tutte esaltative della funzione di Ottaviano Augusto, come vindice ed erede delle libertà repubblicane; approccio vagamente ed intelligentemente temperato nell’Eneide virgiliana soprattutto dall’attenzione verso i vinti, gli sconfitti, i sottomessi con scaltra strizzata d’occhio alla clemenza del princeps, mai protervo ed arrogante con gli sconfitti nella sua intelligente ottica inglobante degli stessi.
Questo quadro sinfonico nel concerto reclamistico del potere non è un parto della Roma classica, ma è ben presente nel cosiddetto modello mecenatico già vigente nella Sicilia del V e IV secolo, laddove  i tiranni siracusani, gelesi ed agrigentini offrono protezione ed ospitalità ben retribuita a poeti come Bacchilide, Simonide e Pindaro che ne cantano dichiaratamente e senza alcun pudore le gesta e la funzione salvifica all’interno della società della grande colonia della Magna Grecia.
Il rapporto tra Pindaro e Ierone di Siracusa è palesemente evidente e adulatoriamente conclamato nell’Olimpica I e nella Pitica I, II e III, donde emerge il rapporto tra il poeta e Ierone, talché l’autore non lesina escursioni nella terminologia dell’epopea omerica, per attribuire al tiranno valori come ἀρετή, τιμή e θέμις, virtù, onore e giustizia, senza esitare a definire il padrone della città βασιλεύς, vocabolo che ammicca alle figure dei re-guerrieri dell’ἔπος omerico, forieri di armonia e stabilità sociale in ragione dei loro trionfi bellici. Ierone deve dunque essere acclamato come sovrano con buona pace della tradizione della sovranità della libera polis della madre patria Ellade.
Ierone potrebbe anche non necessariamente figurarsi come βασιλεύς giusto, ma di certo il poeta ne tratteggia tutte le attitudini per esserlo e divenire primattore del bene della propria città. Egli è dipinto da Pindaro sempre con i tratti della positività, (Olimpica I, vv. 11-14: figura dalle peculiarità divine di cui un «θεὸς ἐπίτροπος», un dio protettore, (v. 106) realizza i desideri, mentre il poeta non nasconde affatto la sua aspettativa di celebrarne altre vittorie future.
E ritratto analogo si ritrova nella Pitica I col sovrano al colmo della sua potenza, proprio a seguito della sua vittoria con il carro (vv. 31-33): […]τοῦ μὲν ἐπωνυμίαν κλεινὸς οἰκιστὴρ ἐκύδανεν πόλιν γείτονα, Πυθιάδος δ’ἐν δρόμῳ κά- ρυξ ἀνέειπέ νιν ἀγγέλλων Ἱέρωνος ὑπὲρ καλλινίκου ἅρμασι. Sovrano definito dunque οἰκιστήρ, ecista, fondatore della città. Ierone, fondatore di Aitna, nata sul luogo dove prima sorgeva Catania, e poi consegnata a suo figlio Dinomene; sicché il poeta non punta a focalizzare la figura del ragazzo che eredita il governo della città divenendone βασιλεύς, in una specie di successione dinastica del titolo, ma si concentra sempre sul padre, colui che ha fondato (ἔκτισσε) Aitna sotto le leggi di Illo, in una sorta di eredità culturale e politica delle dinastie doriche e spartane; lo stesso Dinomene, seguendo la scia paterna, potrebbe fondare la propria dinastia regale.
Il fr. 105a: Σύνες ὅ τοι λέγω, ζαθέων ἱερῶν ἐπώνυμε πάτερ, κτίστορ Αἴτνας definisce in sintesi Ierone come fondatore, padre e sacerdote. Pindaro dunque tratteggia il sovrano non come semplice re da lodare per le sue capacità di governo e di detenzione dell’ordine, ma lo esalta in quanto padre e fondatore, in una duplice valenza mortale e divina.
Non senza dimenticarne le attitudini guerriere: l’ode fa riferimento infatti a due grandi battaglie affrontate dai Dinomenidi, Imera e Cuma, rispettivamente contro i Cartaginesi e gli Etruschi; ai vv. 71-75 e 78-81 si legge: Λίσσομαι νεῦσον, Κρονίων, ἥμερον ὄφρα κατ’οἶκον ὁ Φοίνιξ ὁ Τυρσανῶν τ’ἀλαλατὸς ἔχῃ, ναυσίστονον ὕβριν ἰδὼν τὰν πρὸ Κύμας, οἇ Συσακοσίων ἀρχῷ δαμασθέντες πάθον, ὠκυπόρων ἀπὸ ναῶν ὅ σφιν ἐν πόντῳ βάλεθ’ἁλικίαν, Ἑλλάδ ἐξέλκων βαρείας δουλίας. Παρὰ δὲ τὰν εὔυδρον ἀκτὰν.
Ierone per Pindaro è il solo artefice della vittoria a Cuma, che, in virtù delle notevolissime conseguenze (la liberazione della Grecia dal giogo straniero) con riferimento alle battaglie di Salamina e di Platea contro i Persiani (vv. 75-78) viene paragonata alle storiche vittorie del mondo greco.
Il quadro eminentemente promozionale fornito dalla Pitica I si completa con il paragone che Pindaro realizza tra Ierone e l’eroe mitico Filottete, ai versi. 50-55. Riportandolo ancora una volta nella sfera degli eroi omerici. Filottete era il famoso arciere custode delle frecce e dell’arco di Eracle, Sulle rotte di Ilio, ferito, venne abbandonato a Lemno dai Greci. Filottete non giunse a Troia con gli altri capi: durante lo scalo fu ferito al piede da una delle letali frecce di Eracle (intrise del sangue dell’Idra). La ferita si fece purulenta esalando un tanfo terribile, talché Odisseo convinse gli altri capi ad abbandonare Filottete a Lemno, quando la flotta si accostò all’isola. Filottete rimase per dieci anni su quell’isola allora deserta, sopravvivendo cibandosi di volatili colpiti con le frecce d’Eracle. Durante il decimo anno della guerra di Troia gli Achei ricevettero una profezia secondo la quale non avrebbero mai conquistato Troia se Neottolemo e il possessore dell’arco e delle frecce di Eracle non avessero combattuto con loro. Odisseo partì dunque per Lemno, insieme a Neottolemo e Diomede, e convinse Filottete ad unirsi a loro promettendogli la cura dei figli d’Asclepio, i medici delle schiere greche.
Un preciso programma di recupero della “eroogonia” omerica con un’ulteriore strizzata d’occhio ad eventuali intelligenti moniti al sovrano acciocché egli perseveri sulla strada della virtù, onore e giustizia (e qui torna l’analogia con Virgilio e la pietas verso i vinti riferita ad Augusto), pena la fine di un altro caposaldo della mitologia classica, Issione.
Issione, amato dagli dei, tenta di violentare Era, moglie di Zeus. Ingannato, non copula con la dea, ma con una nuvola che le somiglia. Dall’amplesso nasce un essere che uomini e dei detestano, il Centauro, che, copulando con delle cavalle di Magnesia, procrea la genia dei Centauri. Issione pare antitetico a Ierone, che era odiato dagli dei per il suo peccato e per il suo atteggiamento gravido di ὕβρις, la prepotenza, benché amato dagli dei alle origini. La sua storia rappresenta un monito al sovrano, perché eviti derive di governo causate da identico stato di ὕβρις.
Il cerchio analogico tra il Pindaro delle Olimpiche e delle Pitiche e il Virgilio dell’Eneide ci pare sufficientemente chiuso e coincidente a ribadire che, strutturalmente, gli operatori di cultura non potevano nell’antichità avere tendenze centrifughe, poiché altrimenti destinati all’isolamento e agli esili; in altre parole, esempi di rifiuto del soggiacere al potere come quello di Diogene di Sinope che ad Alessandro Magno che gli si approccia presentandosi e chiedendogli in ragione della fama di lui che cosa possa fare per sortirne benevolenza e gradimento, risponde: “Ti prego di spostarti dal sole, poiché mi causi ombra!” sono da considerare veramente casi isolati. Questa la versione dell’incontro riportata da Plutarco: «Poiché molti statisti e filosofi erano andati da Alessandro congratulandosi con lui, questi pensò che anche Diogene di Sinope, che era a Corinto, avrebbe fatto altrettanto. Ma dal momento che il filosofo non gli diede la minima attenzione, continuando a godersi il suo tempo libero nel sobborgo di Craneion, Alessandro si recò di persona a rendergli visita; e lo trovò disteso al sole. Diogene sollevò un po’ lo sguardo, quando vide tanta gente venire verso di lui, e fissò negli occhi Alessandro. E quando il monarca si rivolse a lui salutandolo, e gli chiese se volesse qualcosa, egli rispose: “Sì, stai un po’ fuori dal mio sole”. Si dice che Alessandro fu così colpito da questa frase e ammirò molto la superbia e la grandezza di un uomo che non aveva nulla, ma solo disprezzo nei suoi confronti, e disse ai suoi seguaci, che ridevano e scherzavano sul filosofo, mentre si allontanavano: “Davvero, se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene.»

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