Quinto Orazio Flacco, lecchino

Quinto Orazio Flacco, lecchino

Quinto Orazio Flacco, lecchino

Quinto Orazio Flacco, lecchino

I difetti delle vette più alte, credit Mary Blindflowers©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Quinto Orazio Flacco, lecchino

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La nostalgia del passato talvolta gioca brutti scherzi di non-conoscenza. La saggezza antica non è poi così saggia e se un popolo è quel che è, lo deve anche a quel che è stato che poi viene dimenticato e relegato nel reparto savi per il popolino.
I più convinti circa la bontà del c’era una volta, arrivano a dire che in passato non c’era corruzione, che si viveva tutti molto più semplicemente e a contatto con la natura, che il talento veniva riconosciuto come tale e che la società era migliore.
Ma sarà poi vero?
Tutto falso. Non lo diciamo noi, lo dice la storia.
La corruzione italiana ha radici lontane, si è infatti formata prima ancora che l’Italia fosse Italia. I latini erano corrottissimi.
Chi non conosce Quinto Orazio Flacco?
Leggendo le biografie ad uso delle scuole italiane, noterete che era figlio di un liberto, nato a Venosa nel 65 a. C. Completò i suoi studi a Roma e ad Atene, poi conobbe Virgilio e Vario Rufo che lo presentarono a Mecenate. Anche allora occorreva essere presentati…
Le antologie scolastiche recitano che tra Orazio e il Princeps nacque “un’amicizia sincera e profonda favorita dalla comune fede epicurea”.
Ma è davvero così?
Vi è un florilegio di pareri di illustri filologi circa un avvenuto passaggio naturale dall’Orazio intimista e moralista dei Sermones a quello battagliero e altamente avvezzo alle docimologie storiche degli eventi di Roma: la maturità avrebbe portato il poeta e l’uomo Orazio a virare su temi più alti e meno individualisti. Noi semplicisticamente propendiamo per la versione montanelliana con riferimento a Berlusconi: “Ne ho conosciuti due: l’imprenditore illuminato e liberalissimo, il politico protervo che mi voleva imporre la sua linea politica nel “Giornale”. Altrettanto dicasi per i rapporti tra Mecenate (portavoce propagandistico di Ottaviano Augusto) ed Orazio: finita l’epoca dei trastulli e degli ozi ben retribuiti, bisognava dare il boost al lavaggio del cervello per i cives Romani e convincerli che il princeps era lì per restaurare gli antichi valori repubblicani. Così lo stesso Augusto in Res gestae 1.1-4:

Annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam [a do]minatione factionis oppressam in libertatem vindic[avi. Eo nomi]ne senatus decretis honorificis in ordinem suum m[e adlegit, C. Pansa et A. Hirti]o consulibu[s, c]onsul[a]rem locum s[ententiae dicendae simul dans, et im]perium mihi dedit. Res publica n[e quid detrimenti caperet, me] propraetore simul cum consulibus pro[videre iussit. Populus] autem eodem anno me consulem, cum [consul uterque bello ceci]disset, et triumvirum rei publicae constituend[ae creavit].

All’età di diciannove anni, per decisione personale e a mie spese ho allestito un esercito grazie al quale ho restituito la libertà alla repubblica oppressa dal dominio di una fazione. Per questa ragione il Senato con dei decreti onorifici mi ha ammesso nel suo ordine, sotto il consolato di Gaio Pansa e Aulo Irzio, dandomi contemporaneamente il rango consolare per esprimere il mio parere, e mi ha conferito l’imperium. Affinché la repubblica non soffrisse qualche danno, (il Senato) mi ha ordinato di prendere delle misure in qualità di propretore insieme con i consoli. Il popolo poi, nello stesso anno mi ha eletto console, poiché entrambi i consoli erano caduti in guerra, e triumviro per la restaurazione della repubblica.

Orazio non poteva non aderirvi, pena l’estromissione dal circolo che lo foraggiava assieme all’amico del cuore, Virgilio; ed ecco il viraggio verso l’epopea dei trionfi del restauratore dei valori repubblicani e dell’espulsore delle derive imperialistiche orientaleggianti rappresentate da Marco Antonio e i suoi intenti centrifughi al calor bianco delle vesti di Cleopatra; alle prime avvisaglie della vittoria augustea ad Azio, 2 settembre del 31 a.C., il venusino confeziona l’Epodo 9 e leggiamo che dice:

Quando, eccitato per la vittoria di Cesare, berrò nella tua grande casa il cecubo (così voglia Giove!), che serbi, Mecenate felice, per i banchetti festivi, mentre risuona il nostro canto tra la lira dorica e il flauto barbaro? Come il giorno in cui l’ammiraglio Nettuno, che minacciava a Roma i ceppi tolti con amicizia a schiavi infidi, fu battuto per mare e fuggì con le navi in fiamme. Un romano, ahimè, (non lo crederanno i posteri), vendutosi ad una femmina, soldato qual è, porta armi e pali agli ordini di decrepiti eunuchi, e tra le insegne militari il sole brilla sopra un’oscena zanzariera. Ma, inneggiando a Cesare, i cavalieri galli si sono schierati a torme con noi, e le navi del nemico, virando svelte a sinistra, si nascondono in porto. Trionfo, trionfo, perché trattieni i carri d’oro e le giovenche brade? Trionfo, mai duce esaltasti simile a Cesare, né il vincitore di Giugurta, né l’Africano, il cui valore seppellì Cartagine nelle macerie. Vinto per terra e mare, il nemico ha mutato la porpora col saio a lutto; forzando il vento forse si dirige a Creta, che splende di cento città, o forse verso le Sirti sconvolte dall’Austro o ancora va alla ventura per mare. Porta, allora, ragazzo, coppe più grandi e vino di Lesbo, di Chio, o versaci il nostro cecubo, che combatte la spossatezza della nausea: il dolce Bacco giova a sciogliere le angosce e i timori per la sorte di Cesare!

Altro che tematiche della maturità e superamento della fase solipsistica vetero-epicurea: propaganda di regime bella e buona caratterizzata dalla smaccata ammissione della paura per le sorti di Ottaviano patita alla vigilia dello scontro fatale nelle acque di Azio e immancabile cancellazione del ricordo degli eroi repubblicani, Mario e Silla, gli eversori di Giugurta, o Scipione l’Africano, vincitore su Cartagine.
E con l’Epodo 9 saremmo solo agli inizi, perché la piaggeria nei confronti del principe dovrà estrinsecarsi nelle Odi del Libro III, quelle chiamate in maniera quasi tenue, Romane, ma che a nostro parere andrebbero battezzate dichiaratamente Odi Leccaprinceps!

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