Poesia, arte, eccezione, musei

Poesia, arte, eccezione, musei

Poesia, arte, eccezione, musei

Di Mary Blindflowers©

Poesia, arte, eccezione, musei

Ametista, credit Mary Blindflowers©

 

Inutile non pensare alla complessità di equivoci e sentimenti contrastanti che crea il solo fatto di accingersi a scrivere dei versi. Parliamoci chiaro, forse l’unico vero libro di poesie che possa in qualche misura definire il suo autore a pieno, nel bene e nel male, si compone come un puzzle alla fine della vita, quando raccolti i suoi migliori componimenti e senza farsi sconti, l’autore stesso, oppure qualcun altro che gli sia sopravvissuto, li pubblica in un volume unico, perché ritiene che valga la pena di non consegnarli all’oblio.
Probabilmente un autore dovrebbe lasciare ad altri l’onere di essere pubblicato, come è accaduto a Kafka, bisognerebbe avere il pudore di dire: “siano gli altri a decidere cosa vogliono fare di questi miei scritti postumi e forse anche inutili”… L’utilità non è un concetto che possa applicarsi a cuor leggero alla poesia e alla letteratura tutta. Non stiamo parlando di ago e filo, di una macchina, di un paio di scarpe, di una borsa capiente, ma di scrittura.
Tante volte mi sono chiesta a cosa serva questo grande mito che chiamano scrittura.
Probabilmente a nulla. Questa è l’unica risposta che mi viene da dire.
Non si scrive con lo scopo di essere utili. Nemmeno la letteratura didascalica lo è più di tanto, a volte è perfino fastidiosa, moralista, pesante e spesso viene superata dall’evoluzione dei costumi e delle mentalità.
L’arte non dovrebbe avere compiti.
Non dovrebbe avere debiti con nulla, con nessuno.
Non è così, ovviamente.
Anzi è spesso e volentieri il contrario. Ci sono dipendenze, legami e rapporti che fanno di un testo letterario un testo letterario e di una poesia una poesia ufficiale e di Manzoni, Manzoni, di Du Fu, Du Fu, di Aleksandr Serguéievitch Púchkin, Aleksandr Serguéievitch Púchkin, di Virginia Wolf, Virginia Wolf, etc.
Niente è poesia, niente è letteratura, senza specifici rapporti di forze.
Per questo motivo scrivere non serve a nulla e la poesia e la letteratura non hanno senso perché servono a diffondere non la cultura bensì la sua illusione, il suo ectoplasma.
Di quale cultura parliamo?
Una cultura vagliata, passata al setaccio, opportunamente filtrata.
È la cultura del carretto dei vincitori.
E i vinti?
Quale scuola mai parlerà della poesia e della letteratura dei vinti? E chi saranno mai questi vinti? Scrittori e poeti i cui rapporti di forza e di sforzo non sono stati mai favorevoli all’emersione, per via di circostanze avverse o resistenze del potere.
Di quale cultura dunque andiamo tutti parlando quando diciamo che una persona è molto colta, che uno scrittore è affermato?
Il problema vero del mondo umano è che contano i fini e mai i mezzi, conta ciò che si vede e mai i rapporti che hanno portato alla visione, quelli non interessano proprio a nessuno. La parte visibile di un lavoro che è il lavoro stesso, una volta superato il setaccio dell’autorità, acquista immediata e indiscutibile sacralità, per cui non può più essere criticata. Una volta dentro un museo o una galleria importante, dentro una teca, dietro una vetrina che conti, qualsiasi dipinto diventa arte. Dopo che viene fatto un film su un libro, il libro diventa libro, prima non si sapeva bene cosa fosse, un oggetto non volante e poco identificabile, che interessava a due gatti e forse qualche topo di biblioteca.
E una volta che un prodotto, perché di questo si parla, di prodotti, acquista l’etichetta di arte, nessuno parli e tutti dormano perché è ufficiale, è arte.
La cultura si basa su questo.
Un procedimento esclusivista che seleziona nella semplificazione e semplifica nell’appiattimento di un termine insulso e depauperato di senso che chiamiamo cultura, una parola quasi superflua nella sua insulsaggine. Per secoli ci hanno detto e continuano a dirci che la cultura è questo piuttosto che quello, un autore piuttosto che un altro, e ci indottrinano, ci riempiono il cervello con i termini cultura, culturale; ci convincono che dobbiamo alzare i nostri nasi all’insù per vedere i grandi, decisi da altri grandi, che a loro volta sono decisi da altri e così via, nell’infinito di catene che ricordano quelle di Sant’Antonio, tanto popolari tra i cretini di ogni età e condizione. Ci trattano da cretini, questa è in sintesi la cultura. Ecco dunque che dobbiamo leggere senza capire nulla se non che quelli che ci fanno leggere sono grandi perché lo hanno deciso loro e non perché lo siano diventati per un certo ordine di rapporti e proporzioni non sempre edificanti, no, certo, ci mancherebbe, sono nati già grandi. Perciò quando andiamo a un museo diamo per scontato che tutto quello che c’è dentro sia indiscutibile, sacro perfino, e camminiamo con circospezione, parliamo in silenzio, ci facciamo foto senza flash davanti ai prodotti dei grandi, per dimostrare quanto siamo bravi e belli per il solo fatto di aver fotografato un grande, stabilito da un grande, deciso a sua volta da un grande, in vari ordini gerarchici di grandezze. Ci fanno credere che tutti i libri e dipinti che stanno dentro un museo, ci siano cresciuti per germinazione naturale, che non ci sia stato nessuno che abbia deciso piuttosto arbitrariamente la loro collocazione. Così i quadratini di Mondrian che potrebbe fare anche un bambino di sei anni, ci sorridono accanto al furore dei dipinti di Caravaggio e ci sembra normale che campeggino nello stesso museo, perché qualcuno ha deciso che è cosa giusta, e se lo ha deciso c’è un motivo, ma agli spiriti comuni non interessa, finché il pranzo è pronto, prende e si mangia tutto ciò che passa il convento. Amen. Del resto il mondo non è tutto una convenzione? Perché mai l’arte dovrebbe fare eccezione? Perché dovrebbe essere qualcosa di speciale?

 

https://antichecuriosita.co.uk/il-destrutturalismo-punti-salienti/

https://www.youtube.com/watch?v=IDhbZeZOBb0

 

 

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