Il re dell’aria Philippe Petit, poeta e funambolo©

Il re dell’aria Philippe Petit, poeta e funambolo©

Di Mary Blindflowers©

Brancaster beach, credit Mary Blindflowers©

 

Scrive Philippe Petit nel suo Trattato di funambolismo: “Il vuoto atterrisce. Prigionieri di un brandello di spazio, combatterete allo stremo delle forze misteriosi elementi: l’assenza di materia, l’odore dell’equilibrio, la vertigine dai lati molteplici e il cupo desiderio di ritornare a terra… Il Filo che appartiene ai Maestri del mondo, sul quale riposa la terra, il filo che collega senza tregua il finito all’infinito, linea retta del percorso più breve tra gli astri… Sprofondare per raggiungere il luogo dove nulla respira, l’oscurità che vi si cela. Per seguire e raggiungere dall’altra parte della luce una chiarezza abbagliante, uno splendore bruciante… Per ore, per frammenti di giorni, la speranza di un arresto del tempo che nessuno saprebbe notare”.

Leggendo attentamente queste parole sembrerebbe che il funambolismo, lungi dall’essere un semplice esercizio di fisica destrezza, appartiene nel caso di Petit, alla poesia. Lo scrittore non è forse atterrito dal vuoto? La pagina bianca è una palese intollerabile assurdità da riempire. La penna è lo strumento teso sul nulla, esattamente come un cavo d’acciaio opportunamente sgrassato. Si tratta della materia attraverso la quale la finitudine concreta dell’essere reale si collega magicamente all’infinito di mondi impossibili in cui il bruciante splendore dell’arte dimentica profitto e interesse in nome di un’autentica passione.

In quest’ottica Petit, funambolo di strada, è un vero artista, un maestro dell’aria che esplora se stesso avendo il coraggio di fare ciò per cui è nato, in assoluta purezza di intenti. Il cielo diventa così “una carta” su cui fare viaggi. Così accade che il nostro funambolo possa essere
proprio quello descritto nello Zarathustra Nietzschiano. Un uomo che lascia cadere le gabbie di certo super-ego di autoritaria e legale matrice, per affrontare la sfida precaria del suo essere uomo fino in fondo, sfidando eroicamente la verità di certe illusorie preconfezioni logocentriche. Petit trova il senso proprio nello sfidare in libertà il senso comune fin dalle sue prime esibizioni clandestine, come quella di Notre-Dame di Parigi, del Ponte di Sydney o del World Trade Center di New York. E come lo scrittore, il funambolo Petit non lavora per la gente, ma per quel senso di arcana esplorazione dell’oltre, passando attraverso lo strumento del cavo, attraverso fatica e sudore. Il cavo è un tatuaggio del corpo. Ad un dato momento si avverte la fusione dell’individualità dell’uomo con il mezzo per attraversare le barriere della finitudine. E se il cavo è una macchina verso bagliori accecanti e dimensioni astrali, il corpo stesso è cavo, strumento a sua volta, fuso, unito, quasi trasceso in questa sua identificazione, in vista dell’ottenimento di un fine più grande, la misura della propria libertà. La gravezza del corpo reclama il ritorno alla terra, come istinto di sopravvivenza, fino a che l’uomo si accorge che il filo riposa già sulla terra, segnando il percorso più breve tra gli astri, nell’indescrivibile abbraccio del tempo fermo. Il poeta e il funambolo vivono dunque la loro arte in un tempo non tempo. Della loro fatica fruiscono altri, coloro che guardano, ma il lavoro è solitario, simile ad un gioco d’azzardo, senza certezze assolute di buona riuscita. Una follia, un moto dell’anima che si segue ciecamente, nato da un mestiere “sobrio, rude e scoraggiante”. Eppure si fa, perché una passeggiata nell’infinito non ha prezzo.  

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