Il nichilismo di Nietzsche secondo Martin Heidegger©

Il nichilismo di Nietzsche secondo Martin Heidegger©

To night, credit Mary Blindflowers©

 

Nietzsche definiva il nichilismo “un ospite inquietante” che ormai è impossibile mettere dietro la porta. Il filosofo della destrutturazione totale dei sistemi comprese appieno l’ineludibilità di un movimento storico attraverso il quale il “soprasensibile” strumentalizzato perde potere e senso se sottoposto alla critica luce della ragione.

La parola nichilismo venne usata per la prima volta da Friedrich Heinrich Jacobi in una sua lettera a Fichte nell’autunno del 1799: «In verità, mio caro Fichte, non deve infastidirmi se lei, o chicchessia, vuole chiamare chimerismo quello che io contrappongo all’idealismo, a cui muovo il rimprovero di nichilismo…». Il termine si diffuse più tardi ad opera di Turgenev, per denominare la concezione secondo la quale soltanto l’ente percepito dai sensi è reale. Quindi si negano l’autorità, la tradizione e la religione fondata su dati sovrasensibili che non è possibile esperire di persona. Il dio cristiano perde, dunque, il suo potere sull’ente e muore. Può anche darsi che qualcuno creda ancora a questo Dio e lo ritenga “reale”, “efficace” e “determinante”. «Ciò assomiglia a quel processo per cui la parvenza luminosa di una stella spenta da millenni continua a rilucere, ma rimane una mera parvenza». La morte di Dio avvia, in realtà, l’inizio di un’epoca nuova. «Le scene del teatro del mondo possono anche rimanere per qualche tempo quelle vecchie, ma il dramma che si sta recitando è già un altro». L’annientamento dellostatus quo dominante e accettato per convenzione non si profila come perdita e mancanza, ma piuttosto è indice di liberazione catartica. Cadono i fini dell’ente, il velo si squarcia mettendo a nudo una distruzione attiva, una trasvalutazione di tutti i valori assoluti e accettati.

Martin Heidegger in un corso tenuto all’Università di Freiburg nel secondo trimestre del 1940, si chiedeva che cosa ha a che fare il nichilismo europeo, ossia occidentale, con i valori e la loro svalutazione. Il rapporto tra dinamica destrutturante e valori non poteva non essere indagato. Il termine nichilismo contiene la parola latina nihil, niente, che indica una non presenza, un non-essere giustificato in senso ontologico e non assiologico. Il niente che non pretende di essere compreso è, semplicemente la negazione incondizionata e totale di tutto ciò che è. Nietzsche non cerca di sprofondare nella meccanica del niente per comprenderla in tutta la sua logica non essenza. Egli non è capace di riconoscere l’essenza occulta del nichilismo perché lo concepisce fin da subito soltanto in base al pensiero del valore che è ente determinato. La domanda sul niente, se mai sia possibile cercare o anche solo trovare il niente, non è importante per Nietzsche, egli non la prende sul serio, lasciandola inesplicata: «si rimane cocciutamente fermi allo schema interrogativo di un aut-aut da tempo abituale». In pratica o il niente è nullo oppure dev’essere un ente, aut-aut. Siccome però il niente non può essere un ente, rimane a rigor di logica soltanto l’altra possibilità; il niente è assolutamente nullo. La risposta non è, però, così semplice.

C’è, infatti, anche la possibilità che il niente non sia ente ma nemmeno qualcosa di nullo. Non ci sono soluzioni dunque. Il niente non ha la necessità di essere capito e il nichilismo sarebbe il non pensare all’essenza del niente. Nietzsche, evitando di tediarsi con l’indagine sul niente, lo collega direttamente al concetto di valore, costruendolo come sua negazione necessaria per la storia della metafisica, nocciolo della filosofia occidentale. Si avverte un potente “vuoto di senso”, lo “spreco delle forze”, il “tormento dell’invano”, la lucida consapevolezza che nei valori costituiti si nasconda un’assenza, un vuoto illogico, il nulla puro e crudo senza scopo. La sensazione di essersi per tanto tempo ingannati circa la verità contenuta nello stabilito è forte. Allora, si cerca di pensare non in termini di scopo, ma di unità. L’uomo avverte l’esigenza di dipendere da un tutto a lui superiore. Il bene universale presuppone l’abbandonarsi del singolo: una sorta di sistematizzazione, di ordine che ci fa stare tranquilli, per cui l’unità dipende da forze superiori universali; peccato che queste forze non ci siano, sono nate dal parto fantasmatico dell’uomo. Egli per poter credere nel proprio valore ha avuto bisogno della totalità infinita. Si tratta di un’esigenza naturale e fallace. A questo punto, se il divenire non deve raggiungere niente, se sotto questo divenire una grande unitào totalità sistematizzata e sicura da cui l’uomo può dipendere non c’è, si potrebbe costruire un mondo nuovo come unico mondo vero. Ma anche in questo caso il mondo scaturirebbe da meri bisogni psicologici, da qui nasce l’incredulità per un mondo metafisico: «dalla postulazione di un mondo vero come mondo di ciò che è in sé, che permane, al di sopra del mondo falso come mondo del mutamento e della parvenza, scaturisce una terza forma di nichilismo, quando l’uomo si accorge che questo mondo vero, il trascendente e l’aldilà, è fabbricato soltanto in base a bisogni psicologici».

Dunque, non si può interpretare l’esistenza sulla base concettuale di scopounità o verità. Nella molteplicità degli avvenimenti non c’è uno scopoo una unità che informi tutto di sé. Lo scopo, ossia ciò da cui tutto deve dipendere, diventa caduco. L’unità come onnidominante unione, ordinamento e articolazione di tutto in relazione a uno, viene svelata nel suo non-essere. L’esistenza non è basata su un principio di verità ma nel suo contrario.

Le categorie scopounità e verità su cui si è costruita l’impalcatura dei valori condivisi vengono estratte dall’edificio dei valori stessi e messe a nudo impietosamente come dimostrazione di assenza dei valori cosmologici. Naturalmente il cosmo non cade, è soltanto liberato dalla valutazione mediante i valori: una catarsi, una nuova visione che guarda l’agonizzante Dio crollare con l’assolutezza.

L’uomo buono”, “modesto”, “diligente”, “benevolo”,“moderato”,  è lo “schiavo ideale”. La sua morale è l’origine dei valori supremi a cui si sottomette senza sapere niente. Trattasi di un “iperbolico ingenuo” che accetta “scopo” “unità”, “totalità” e “verità” come se gli cadessero dall’alto. L’ingenuo sa solo che deve inchinarsi, sottomettersi. Non indaga l’origine dei valori, non sa che provengono dalla volontà di potenza. L’uomo rimane prigioniero dell’ingenuità fino che non assume la consapevolezza di essere il senso e la misura dei valori da lui condizionati e trascinati dal nichilismo dal cielo sulla terra nuda. L’ingenuità è difetto di volontà di potenza perché non sa che la conoscenza per mezzo dell’uomo e a sua immagine, è l’unico modo per capire il mondo. Il difetto dell’ingenuità non è l’antropomorfizzazione dell’oggetto, bensì il fatto che tale processo di antropomorfizzazione non sia consapevole. Il passaggio da una condizione di miserabile schiavitù all’atto di potenza è la vittoria della ragione, il dominio del super-uomo. Egli supera la condizione umana quale si è avuta finora, sceglie volontà, consapevolezza e cogito di matrice Cartesiana e Protagorea.

Il percorso che porta all’estrazione di “scopo”, “unità” ed “essere” dall’edificio dei valori fino alla svalutazione, in nome dell’uomo e per l’uomo che pensa, offre una destrutturazione attiva. Il pensiero diventa capace di superare il dogma. Il nichilismo ha collocato i valori sul tavolo d’acciaio e li ha sottoposti ad autopsia. Il risultato di questa indagine è l’abbattimento di ogni certezza, la lucida e forte capacità di sfuggire alle imposizioni dall’alto. Gli ultramondi disegnati dalla religione dei padri, sprofondano nell’abiezione del non-sense. Le promesse di paradiso ed inferno si svalutano di fronte al sillogismo della libera mente pensante. Le verità certe per tradizione marciscono di fronte al corpo nudo del tempo aperto dalla chirurgia del filosofo. I sistemi cadono, rimane soltanto la pura volontà di potenza.

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