Saviano, ma perché, scrive?

Antique Victorian Cast Iron Book Press

Saviano, ma perché, scrive?

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Antique Victorian Cast Iron Book Press

Antique Victorian Cast Iron Book Press, credit Antiche Curiosità©

 

La conferma che per diventare scrittori di successo bastano le conoscenze politiche giuste, un tavolino piuttosto a sinistra, la tessera di un partito e la complicità di un giornale, uno a caso, Repubblica nella Repubblica delle banane e delle pere cotte, è data da uno dei personaggi italiani che con un libro, Gomorra, è diventato “scrittore” con la s maiuscola, vive con la scorta, in una gabbia dorata da cui ogni tanto mette fuori la testina per sentenziare e cincischiare parole che tutti i media poi riportano come se fossero oro in foglia da custodire gelosamente nello scrigno delle verità assolute.

Di solito gli scrittori veri hanno la pessima abitudine di scrivere, e lo fanno anche quando capiscono di non avere nessuno che copre loro le spalle, anche quando sanno che sarà difficile trovare un editore disposto a farli stampare e diffondere soprattutto. Kafka è in questo senso un caso emblematico, di scrittura per la scrittura, completamente disinteressata e svincolata da interessi particolari. Ma Kafka, che alcuni considerano e probabilmente a ragione, uno dei grandi scrittori del Novecento, scriveva e lo faceva di continuo. Gli scrittori scrivono. È una loro esigenza naturale, per loro scrivere è come respirare. Saviano, dopo un respiro, pubblicato, ma che fortuna, con un grosso editore, ha optato per l’apnea, diventando, grazie alla propaganda di certa pseudo-sinistra radical chic, un’icona che scrive poco e male.

Oltretutto sul suo primo capolavoro di scrittura, la cui prosa, se proprio vogliamo insistere, lascia alquanto a desiderare e non denuncia affatto il talento di un grande scrittore, piovono qua e là accuse di copia e incolla di certe inchieste giornalistiche che poi sarebbero state riportate nel suo meraviglioso parto letterario. Ovviamente da questo unico solitario libro, è stato tratto un film, poi una pièce teatrale, articoli a non finire su quotidiani locali ed esteri, insomma, un certo sistema, che da secoli monopolizza la cultura in Italia, ha deciso che Saviano doveva diventare famoso, in un modo o nell’altro, anche senza scrivere nulla, e così è stato, nonostante la prosa non sia eccellente. Fin dalla prima pagina, parlando dei cinesi: “i corpi che le fantasie più spinte immaginavano cucinati nei ristoranti”. Forse sarebbe stato meglio usare il termine fervide e non spinte che ha un significato diverso rispetto a quello che si vuole intendere. Il linguaggio è approssimativo, scarsamente letterario, a imitazione dello stile americano usato nei romanzi a diffusione popolare, il cui unico scopo non è curare sintassi e stile, ma attirare l’attenzione. Fin dall’inizio assume un tono cronachistico, infarcisce la narrazione di dati presi da inchieste giornalistiche che non ha fatto l’autore, aggiungendo anche i numeri:

“a Napoli si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina, 1.600.000 tonnellate. Quella registrata. Almeno un altro milione passa senza lasciare traccia. Nel solo porto di Napoli, secondo l’Agenzia delle Dogane, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono cinquantamila contraffazioni: il 99 per cento è di provenienza cinese e si calcolano 200 milioni di euro di tasse evase a semestre. I container che devono scomparire prima di essere ispezionati si trovano nelle prime file. Ogni container è regolarmente numerato, ma ce ne sono molti altri con la stessa identica numerazione. Così un container ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Quello che il lunedì si scarica, il giovedì può vendersi a Modena o Genova o finire nelle vetrine di Bonn e Monaco. Molta parte della merce che viene immessa nel mercato italiano avrebbe dovuto fare soltanto transito, ma le magie delle dogane permettono che il transito poi diventi fermo. La grammatica delle merci ha una sintassi per iI documenti e un’altra per il commercio. Nell’aprile 2005 in quattro operazioni scattate quasi per caso, a poca distanza le une dalle altre, il servizio di Vigilanza Antifrode della Dogana aveva sequestrato ventiquattromila jeans destinati al mercato francese…”

Questa sarebbe la prosa di un romanzo, praticamente dati noti riportati nel libro senza alcuna elaborazione artistica, e presentati nudi e crudi sulla carta, estrapolati da inchieste fatte da altri e risapute. Questa sarebbe letteratura, la letteratura per cui Saviano vive sotto scorta, la letteratura per cui questo personaggio sta sempre in tv a esprimere i più banali pareri sul mondo che vengono ripetuti di bocca in bocca ed amplificati come se avesse parlato un oracolo.

Gomorra è un polpettone cronachistico che il sistema ha deciso dovesse vendere, perché lo ha stampato e reso visibile dappertutto, perché i media gli hanno dedicato articoli su articoli, intervistando l’autore, portandolo in tv, facendoci un film, costruendo il mito della lotta antimafia nonostante c’è chi abbia detto che non ci siano reali riscontri di minacce contro di lui.

Che ci siano o non ci siano, Gomorra resta comunque un testo che non afferma cose nuove rispetto a quelle che già si sapevano, e soprattutto non è letteratura, considerato che l’etimo del termine è quello di “versato in belle lettere”; ora, riportare dati di cronaca senza alcuna elaborazione semantica e concettuale non significa mostrare attitudine all’ermeneia individuale di ciò che viene registrato sulle cronache dell’Agenzia delle Entrate e dai Registri Doganali. Sui moderni dizionari si legge a proposito della definizione di letteratura: In origine, l’arte di leggere e scrivere; poi, la conoscenza di ciò che è stato affidato alla scrittura, quindi in genere cultura, dottrina. Oggi s’intende comunemente per letteratura l’insieme delle opere affidate alla scrittura, che si propongano fini estetici, o, pur non proponendoseli, li raggiungano comunque; e con significato più astratto, l’attività intellettuale volta allo studio o all’analisi di tali opere. Non vi è alcuna dottrina (da doceo, io insegno) in quel che registra Saviano, non vi è alcuna cultura (da colo, io coltivo) poiché egli è un mero registratore e diffusore di ciò che avviene a Scampia mettendo sullo schermo e sulla carta fenomeni noti da tempo a tutti. Non vi è alcun fine estetico (da aisthesis, sensazione) in quanto la percezione dei traffici illeciti che da decenni si consumano in quel di Scampia non genera alcuna sensazione essendo un fatto conclamatamente acquisito da tempo.

Ma andiano un po’ a scartabellarne alcune pagine:

“Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli. Non v’è manufatto, stoffa, pezzo di plastica, giocattolo, martello, scarpa, cacciavite, bullone, videogioco, giacca, pantalone, trapano, orologio che non passi per il porto. Il porto di Napoli è una ferita. Larga. Punto finale dei viaggi interminabili delle merci. Le navi arrivano, si immettono nel golfo avvicinandosi alla darsena come cuccioli a mammelle, solo che loro non devono succhiare, ma al contrario essere munte. Il porto di Napoli è il buco nel mappamondo da dove esce quello che si produce in Cina, Estremo Oriente come ancora i cronisti si divertono a definirlo.”

Si noti poi la lessicopenia del narrato: il vocabolo “porto” ripetuto tre volte nel giro di tre righe, quattro nel giro di sette! L’immagine poi del porto di Napoli come “buco nel mappamondo” è risibile! Non si fanno buchi nel mappamondo per far arrivare le merci da un continente all’altro; la metafora non pare per niente congrua ed attagliata al contesto.

Quando tutto ciò che è possibile è stato fatto, quando talento, bravura, maestria, impegno, vengono fusi in un’azione, in una prassi, quando tutto questo non serve a mutare nulla, allora viene voglia di stendersi a pancia sotto sul nulla, nel nulla. Sparire lentamente, farsi passare i minuti sopra, affondarci dentro come fossero sabbie mobili. Smettere di fare qualsiasi cosa. E tirare, tirare a respirare. Nient’altro.”

Le due preposizioni locative contigue, “sul” e “nel” riferite al termine “nulla” sono di un circiterismo lessicale spaventoso nel loro logico contrasto: ci si stende su qualcosa, non in qualcosa, oltretutto l’incorporeità del nulla rende risibile la metafora. “Tirare a respirare” è un’espressione idiomatica inesistente nella lingua italiana, dove in dipendenza del verbo tirare viene registrato solo l’infinito con valore modale del verbo “campare” metafora del sopravvivere.

Insomma c’è una povertà di linguaggio devastante, eppure, questa è stata definita letteratura, dunque patrimonio culturale e dottrinale ed estetico della produzione artistica contemporanea! 

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

https://www.thedailybeast.com/mafia-author-roberto-savianos-plagiarism-problem?ref=scroll

Post a comment