Gli infantilismi poetici dell’accademico Michele Mari

Gli infantilismi poetici dell'accademico Michele Mari

Gli infantilismi poetici dell’accademico Michele Mari

Di Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Gli infantilismi poetici dell'accademico Michele Mari

L’editoria, drawing on paper by Mary Blindflowers©

 

Michele Mari, accademico, insegna letteratura italiana all’Università degli studi di Milano e viene definito dal portale della Rai “uno dei più importanti scrittori italiani”. Secondo i bene informati ha esordito nel mondo della poesia “in modo autorevole e smaliziato nelle forme stilistiche”. 

Ci siamo presi la briga di leggere le sue poesie pubblicate da Einaudi: “Cento poesie d’amore a Lady Hawke”, 2007, parti letterari che ancora vengono condivisi sui social come se fossero oracoli. Leggendo, ci sforziamo sinceramente di capire le ragioni delle strombazzate lodative che circolano nei vari blog e sui giornali inneggianti a questo autore, ma non capiamo; forse siamo troppo vecchi per afferrare la poesia contemporanea! Fatto sta che in fase post-lettura ci sono letteralmente cascate le braccia, per non dire qualche altra cosa, ma siamo anziani e vi risparmiamo volgarità.

Ecco, leggiamo l’egregio Mari, professore di questa nostra povera italietta:

Nella mia testa

c’è sempre stata una stanza vuota per te

quante volte ci ho portato dei fiori

quante volte l’ho difesa dai mostri

Adesso ci abito io

e i mostri sono entrati con me

Abbiamo subito pensato. Ma è uno scherzo? Va bene che è accademico e quindi pubblica coi grossi editori per grazia ricevuta, poi in Italia se si hanno le conoscenze giuste, si sa, una cattedra non si nega a nessuno, ma qui veramente siamo allo scandalo del nulla per il nulla. Ha portato dei fiori dentro una stanza vuota dove adesso abita. Ha difeso la stanza dai mostri. La difesa non è stata molto efficace, al pari della sua poesiola, dato che i mostri sono entrati con lui dentro la stanza. Una metafora trita e ritrita, l’antico tema del mostro come problema esistenziale nel rapporto a due e della stanza vuota come luogo d’angoscia condivisa. Il problema però non è tanto la mancanza di immagini nuove, quanto il linguaggio, devastantemente infantile, tanto che questa lirica potrebbe essere stata scritta da un bambino dell’asilo, le elementari sarebbero già troppo. Siamo certi per esempio che un modesto alunno delle elementari sorriderebbe a vedere quelle due esclamative in chiusura di prima stanza non scevrate da alcun segno di interpunzione rispetto al primo distico, né tampoco marcate, come prescrive l’ortodossia grammaticale, da punti esclamativi. Ma Mari di sicuro è uno scrittore grammaticalmente eterodosso come dimostra la lirica successiva dove:

l’avversativa non si separa con alcuna virgola dalla sua coordinata;

il pronome relativo dell’ultima linea (ci vien lo shock anafilattico a chiamarla verso!), pur puntando concettualmente a riferirsi a preghiera, appare ortodossamente legato al termine che lo precede (senso stretto) come chiaramente l’idea dell’autore non vorrebbe!

Eccola:

Tu non ricordi
ma in un tempo
così lontano che non sembra stato
ci siamo dondolati su un’altalena sola

Che non finisse mai quel dondolìo
fu l’unica preghiera in senso stretto
che in tutta la mia vita io abbia mai levato al cielo.

Ci si dondola su un’altalena, in due. lI “poeta”, chiamiamolo così per scherzo, prega che non finisca mai quel dondolio. Il tema del prolungamento dell’attimo felice è reso, purtroppo, infelicemente, con una prosa primitiva che va semplicemente a capo. Ed è esilarante pensare come un concetto espressivo di anelito fortemente macerativo si esprima in una metafora talmente puerile e abortiva quale quella che estrinseca l’impulso a non guardare in faccia la realtà tetra ed ordinaria nel suo divenire quotidiano, ma continuare i trastulli infantili che un legame sentimentale suggerirebbe!

In quale oceano in quale notte

la sto perdendo

chiesi al delfino

Disse il delfino:

nell’acqua nera

dove quello che unisce separa

dove il silenzio è un boato

dove sei perso anche tu

Notevole anche qui l’eterodossia e l’eterogeneità del digitare poesie del Mari; nella prima strofa come nella seconda gli interventi del protagonista e del delfino non si distinguono dalla διήγησις del poeta, il discorso diretto non ha necessità di essere virgolettato; nella seconda l’autore ci fa la grazia per lo meno di due punti introduttivi; che cosa volete che sia l’omissione del punto interrogativo al termine del quesito posto al mammifero d’acqua? Idrograficamente ci chiediamo angosciati quale fenomeno biologico unisca e separi al contempo il contenuto dell’acqua nera; non siamo informati a riguardo! Il martellamento del triplice avverbio locativo ingressivo delle ultime linee ha davvero un effetto da piel de galina, come direbbero i castigliani (per i quali è meglio non tradurre simili balbettii poetici!)

Michele Mari… Beethoven soleva dire, riferendosi a Bach: “Nicht Bach, sondern Meer sollte er heißen! Se avesse avuto la ventura di ascoltare, di leggere Mari…avrebbe invertito il concetto orientandolo sul pozzangherismo più stagnante e ridotto! Ma tant’è Mari è un “poeta”, lo ha deciso Einaudi e non solo…

https://antichecuriosita.co.uk/manifesto-destrutturalista-contro-comune-buonsenso/

Comment (1)

  1. Claudio

    La cosa triste è che magari qualcuno dopo aver letto questa recensione, che è fin troppo buona, per essere più cattivi sarebbe bastato incollare altre due o tre poesie di quella raccolta, dicevo magari qualcuno andrà persino a comprarsi il libro per verificare il perché di critiche così severe.
    Speriamo non lo faccia, questa recensione parlava davvero del nulla. Quella raccolta di poesie non ha alcun contenuto, alcun senso di esistere e nessuna bellezza stilistica o musicalità.

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