Joyce autore difficile? No!

Joyce autore difficile? No!

Joyce autore difficile? No!

Joyce autore difficile? No!

Ulisse, II edizione italiana, credit Antiche Curiosità©

Mary Blindflowers©

Joyce autore difficile? No!

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In molti mi hanno detto di non essere riusciti a finire l’Ulisse di Joyce che io invece considero un capolavoro meno difficile di quanto apparentemente sembri. Joyce ha una rara virtù, quella di dire parecchio in poche righe, laddove oggi si dice nulla con tante parole. La scrittura dell’Ulisse però non è né piatta né lineare come quella di tanti, troppi a dire il vero, scrittori contemporanei che hanno uno stile deprimente da scuola primina di scrittura creativa a pagamento. Se iniziate a leggere l’Ulisse scordatevi l’uniformità, preparatevi ai voli pindarici del genio. Innanzitutto la prosa di Joyce canta, è una musica, una melodia che accetta dissonanza, toni acuti e gravi e ti trasporta eliminando tutto il superfluo. L’autore rovescia totalmente la tradizionale figura del povero e dello squattrinato costruita da tanta romanzistica dell’Ottocento-Novecento, dove chi non ha mezzi è sempre perlopiù ignorante, protagonista di una vita di stenti spesso avventurosi che ne sanciscono solo alla fine il riscatto o ne causano al contrario l’ingiusta e lacrimosa morte. Ebbene, in Joyce il povero è coltissimo, perfino nel nome allude alla mitologia greca: Stephen Dedalus, un “nome assurdo da greco antico”, una “canzonatura”. È chiara infatti l’ironia che traspare da ogni rigo, sottile, intelligente, raffinata. E Dedalus rimanda al labirinto in cui il lettore si caccia leggendo il romanzo luogo non-luogo dove ogni frase non è buttata a caso ma carica di simboli.
Fin dalle prime pagine i personaggi sono ben delineati, nitidamente precisi, se si riesce a scorgerli tra i significativi frammenti di discorsi letterari e non. I dialoghi sono densi di significato, molto concentrati e riaffiorano come scogli netti da un mare di riferimenti che possono trarre in inganno il lettore ingenuo dando una falsa impressione di disordine, laddove invece regna l’ordine e un disegno lucido, ben concertato. Sempre molto esplicito l’orgoglio nazionale irlandese. Nel dialogo di Stephen con Haines, dipanato nella torre del comune amico Buck Mulligan, la polemica sulla tripla schiavitù del protagonista è evidente: lavoro precario, chiesa cattolica, imperialismo britannico, temi del resto attualissimi, perché la letteratura non muore mai:

Stephen si voltò… -Sono servo di due padroni… un inglese e una italiana.
– Italiana? disse Haines.
– Una babilonica sovrana vecchia e gelosa. Inginocchiati davanti a me.
– E ce n’è un terzo, disse Stephen, che mi vuole per lavori spiccioli.
– Italiana? ripeté Haines. Che vuol dire?
– Il governo imperiale britannio, rispose Stephen, accendendosi in volto, e la santa chiesa cattolica apostolica romana.
Prima di parlare, Haines si staccò dal labbro inferiore qualche filo di tabacco.
– Capisco perfettamente, disse calmo. Un irlandese deve pensarla così. Noi in Inghilterra sentiamo di avervi trattato piuttosto ingiustamente. Parrebbe che la colpa sia della storia.

La conclusione di queste poche, efficacissime battute, è molto ironica. Gli inglesi scaricano la responsabilità della colonizzazione su un’entità generica definita “storia”, attraverso un processo di comoda depersonalizzazione.

Ma anche la vecchia che serve il latte a colazione dichiara di vergognarsi di non parlare irlandese:

– Parla francese, signore? disse la vecchia a Haines.
Haines tornò a parlarle, un più lungo discorso, sicuro di sé.
– Irlandese, disse Buck Mulligan. Mastica il gaelico lei?
– Mi pareva che fosse irlandese, disse lei, dal suono. Lei è dell’ovest, signore?
– Sono un inglese, rispose Haines.
– È inglese, disse Buck Mulligan, e pensa che dovremmo parlare irlandese in Irlanda.
– Certo che dovremmo, disse la vecchia, e io mi vergogno di non parlarlo. Mi dicono quelli che se ne intendono che è una gran lingua.
– Grande non è la parola, disse Buck Mulligan. È semplicemente meravigliosa.

Oltre a quello inglese, anche l’altro tipo di imperialismo, quello religioso, viene messo alla berlina quando il dialogo si apre al discorso sul “dio personale”, “Gesù Giullare” e “Beppe il Falegname”.

Non manca naturalmente la questione sociale, espressa sempre in poche righe quando Stephen interroga i suoi alunni ricchi e ignoranti:

– … Lei Armstrong sa qualcosa di Pirro?
– Pirro, professore? Pireo, un molo.
Tutti risero. Alta inamena malevola risata. Armstrong volse lo sguardo ai compagni, profilo di una stolida gaiezza. Tra un momento rideranno più forte consci della mia scarsa autorità e delle rette che i loro babbi pagano.

Joyce è un autore difficile? Direi di no. Cosa ci sia di  complicato da capire in Joyce io non so. Molti sostengono che le letture mediocri non facciano danni, invece li fanno e pure tanti. Se troppe persone non capiscono un tubo di Joyce è perché l’editoria le ha abituate a una scrittura mediocre e senza sorprese, dai personaggi stereotipati e insulsi. Il genio va capito.

I pezzi di Joyce citati sono tratti dalla II edizione italiana dell’Ulisse, Mondadori, 1960.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

Comment (1)

  1. Mariano Grossi

    Fa rizzare le vibrisse
    come un gatto che va a caccia
    la lettura dell'”Ulisse”
    al lettor che si compiaccia
    degli autori d’oggidì
    da mandare a far pipì!

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