Ecco il paradigma dell’irriverenza

Ecco il paradigma dell'irriverenza

Ecco il paradigma dell’irriverenza

Ecco il paradigma dell'irriverenza

Il paradigma dell’irriverenza, credit Mary Blindflowers©

 

Ecco paradigma dell’irriverenza

Paolo Durando©

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Qualche settimana fa, su TUTTOLIBRI, inserto del sabato de “La Stampa”, ci siamo imbattuti in una pubblicità a tutta pagina di un romanzo di tal Chiara Francini: “La trascinante confessione autobiografica di una ragazza di provincia”. E, sotto: “quella che sono lo devo alla schiacciata. Ai cerchietti. Alle merende. Alle umiliazioni. Ai gay. E alle lucine. Da sempre F.U.O.R.I.  Fuori luogo, fuori dai denti e fuori misura”.

Possiamo ritenere questa presentazione un vero concentrato di ciò che oggi parrebbe “doveroso” in ambito colto e più o meno radical-chic. Quell’apparente “pensiero unico” che da decenni imperversa contro la “prevedibilità”, comunque la si voglia intendere, contro ogni forma di equilibrio, pacatezza, buon senso. Di fatto, viviamo nell’elogio costante di un presunto anticonformismo, della “irriverenza”, in nome di una sincerità senza filtri, di una libertà senza compromessi. Che tutto questo nella società sia davvero apprezzato e diffuso, tuttavia, è un altro paio di maniche. È così a livello di bon ton, di mainstream mid-cult. Possiamo facilmente verificare, in effetti, che quando qualcuno si avvicina davvero alla possibilità di una vita “diversa”, vediamo che si affretta subito, soprattutto se donna, a rassicurarci.  È un refrain la top-model, l’attrice famosa che dichiara di non avere, in realtà, altra aspirazione che una vita “normale”, la famiglia, l’essere moglie e, soprattutto, madre. Nessuna parrebbe irretita dal suo status e, naturalmente,  si sprecano i riferimenti all’ironia e, ancora più, all’autoironia. Eccoci dunque rientrati nell’alveo di ciò che, alla resa dei conti, noi reclamiamo di default dagli altri prima ancora che da noi stessi: la rinuncia, l’apparente “non prendersi sul serio”.  Se l’ipocrisia  borghese d’antan era più esplicita e codificata, non ne siamo poi tanto lontani, nonostante i lustrini, le smanie, le esagitazioni di una scena “trasgressiva” che, dopo i fasti del ’68 e del ’77, che aveva le sue ingenuità ma anche una sua autenticità, è divenuta sempre più ripetizione, esasperazione, citazione. A rappresentare in modo efficace questa attuale schizofrenia occidentale tra culto dichiarato dell’alterità e la reale cappa opprimente di conformismo e mediocrità, è il modo i cui si continua a ricordare ed elogiare Pasolini. Se ne è fatta un’icona di sinistra, di destra e persino di un certo cattolicesimo. Pasolini aveva scritto, come sappiamo, riflessioni molto stimolanti, che sono via via divenute parte imprescindibile del bagaglio di chi aspira a far parte della contemporaneità, con la consapevolezza e la tensione che devono contraddistinguere ogni atto interpretativo e creativo. Se pensiamo, poi, ai suoi film, non sempre riusciti per ritmo e coesione narrativa, va riconosciuto che restano inconfondibili, anche per la capacità di restituire antropologicamente altre epoche, mentre oggi quasi tutte le rappresentazioni del passato appaiono patinate e inverosimili. Perché Pasolini vive sulla sua pelle la “distanza” che, prima di essere legata al tempo e allo spazio, viene in lui vissuta in termini di personale, costitutivo esilio simbolico. Oggi la sua attrazione per ragazzi anche minorenni e il modo con cui cercava di adescarli sarebbero ascritti automaticamente al “male assoluto”. Nel discorso pubblico non c’è più nessuna possibilità di legittimazione di certe pulsioni e aspirazioni. Eppure si continua a farne una sorta di santino, prescindendo spensieratamente dalla sua bruciante, irrisolta individualità che, in sostanza, viene rimossa, più di quanto accadesse in quegli anni 70 in cui gli intellettuali, in fondo, si aspettavano di tutto in nome della libertà (qualcuno ricorda ancora il manifesto vagamente favorevole alla pedofilia, firmato anche da Sartre e Simone de Beauvoir?) Perché in realtà le differenze, le vite che sfuggono e nelle quali non possiamo riconoscerci e trarre conferme, nonostante le nostre dichiarate aperture, continuano a spaventare.  Oggi ancora di più, nella piena omologazione raggiunta dalle nostre comunità, per le quali l’immagine sociologica dello “sciame”, col suo illusorio ugualitarismo,  si attaglia di più delle vecchie categorie, quelle fondate sulle classi, sui partiti, sui luoghi della geografia e dell’anima. Se pensiamo, ad esempio, alle condivisibili aspirazioni di Michela Murgia a  una libertà affettiva non condizionata dai formalismi della famiglia tradizionale, è facile constatare che queste hanno piena cittadinanza solo nella falsa dialettica interna al potere, di cui Murgia stessa ha infine fatto parte, in piena consapevolezza. Siamo all’uroboro, il serpente che si morde la coda, a una giostra sulla quale chi riesce a salire può fingere di recidere i cordoni ombelicali, inebriandosi di veder ruotare sullo sfondo, sempre più confusi, il pane, le rose, i capestri, gli inganni. È il potere, certamente, in questa sua perdita di contatto con la carne e il sangue, a poter avallare un sintomo compulsivo-ossessivo come l’uso dello schwa, che fa della nevrosi da evitamento il pedaggio dell’inclusione. La vera libertà, perseguita fuori dalle pose massmediatiche, dalle masturbazioni identitarie, non è accettabile; la ricerca esistenziale libera da tradizioni e cristallizzazioni, nell’affermazione spassionata della gioia di vivere, ciò che non può che rifiutare etichette e distinguo  da marketing, sono materia incandescente che deflagra laddove la maggioranza delle persone  è frustrata e resiste, esprime “resilienza” (!), se può vedere gli altri piegarsi alle stesse limitazioni. Per questo, quando un individuo come il generale Vannacci, argomentando come un attardato, un po’ stolido liceale, tra improprietà lessicali  e grammaticali (sono sufficienti le prime pagine del suo già famigerato pamphlet per comprendere con chi si ha a che fare, linguisticamente e culturalmente), scrive il suo risibile attacco a ogni evoluzione personale e sociale, la “gente” ha davvero pane per i suoi denti. A tanti non pare vero che vengano additati al disprezzo universale coloro che, per caso, per fortuna, o magari, semplicemente, perché più svegli, sono andati un po’ più a fondo nei rapporti interpersonali, nelle letture, nella decodifica della società in cui viviamo. Si illudono di essere la maggioranza, ma non è così, lo vogliamo credere in un residuo di ottimismo, perché altrimenti ci avvieremmo a uno sfacelo, senza vie d’uscita, della convivenza.

Ma una cosa è certa, in questa fantasmagoria di illusioni e malafede, di corruzioni e fughe, una “direzione” della storia non è più ravvisabile. Ci circonda  un paesaggio in cui residui di un lontano passato e immagini del più sradicato futuro finiscono con l’alternarsi e intrecciarsi. Nella vecchia Europa più che altrove, e in Italia in modo particolare, in questo presente a corto raggio di talpe allo sbando.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

Comment (1)

  1. Mariano Grossi

    In un mondo senza età
    privo ormai d’identità
    noi fingiamo alterità
    con la falsa sicurtà
    di dioingersi diversi
    come quei che fur perversi
    che scrivean orrendi versi
    e su un lido andaron persi.
    Tuttii Falstaff, veri guitti
    tra Ninetti e Franchi Citti
    raccontando il nitty-gritty
    d’una storia da star zitti.
    Oggi invece quei begli hobby
    sono preda di una lobby
    e se invece tu la snobbi
    ti riducon come i gobbi.
    E sto mondo capovolto
    dà denaro a chi è un incolto
    che di spare time ne ha molto
    e compone a mo’ di stolto
    libri fatti al fai da te
    per fumare il narghilè
    e di vendite fa il re
    in un mondo di lacchè!

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