Granet, sul sacrificio umano

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Granet, sul sacrificio umano

Ossa, credit Mary Blindflowers©

 

 

Angelo Giubileo©

Granet, sul sacrificio umano

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In un mio articolo, L’Evoluzionismo è un falso, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla ricerca di Marcel Granet in Danses et légendes de la Chine ancienne secondo la traduzione di Elena Riva Akar pubblicata dall’Adelphi nell’anno 2019, ho rappresentato l’idea che la teoria evoluzionistica – come tutte le teorie – non s’identifica affatto con la realtà che, inoltre, ne precede sia la formazione che lo sviluppo. In proposito, il saggio di Granet è esplicativo e oltremodo chiarificatore, in particolare per ciò che concerne la formazione e lo sviluppo della tradizione e delle tradizioni, secondo una linea di continuità che attraverso il resoconto storico dei fatti (?) cinesi pare meglio rappresentata rispetto al resoconto storico dei fatti (?) romani.

Secondo l’interpretazione di Granet, le tradizioni resocontate dai letterati rispondono a principi e schemi, che l’autore chiama “fatti secondari” e che “nella costituzione della materia storica hanno svolto (n.d.r.: al contrario di quanto si crede secondo una sorta di comune buon sensoil ruolo guida” (pag. 48). Tra i fatti più significativi, il fatto che possiamo definire addirittura paradigmatico, iniziale, originario, è il fatto evoluzionistico dei sacrifici umani. Fatto che, per quanto qui premesso, dobbiamo valutare in un’ottica di formazione e sviluppo sociale, e cioè nell’ambito di una comunità di individui, sia essa familiare o civile, e quindi legata al potere del Signore (pater) o Signora (mater) della famiglia o Capo della diversa tribù, villaggio, città, impero.

Riguardo alla formazione e allo sviluppo successivo della teoria legata al principio e schema originario del sacrificio umano, Granet sinteticamente conclude: “Il Prestigio del signore è riconducibile ai suoi poteri religiosi e magici. Il Capo assicura, per conto di tutti, l’Ordine della Natura. Deve consacrarsi interamente alle potenze sacre, poiché da esse trae le sue Virtù. Ogni principe è devoto agli Dei del suo paese. Il Fondatore di una dinastia stabilisce, attraverso un sacrificio totale, un’alleanza definitiva tra la sua Stirpe e il Luogo Santo. Solo colui che si è interamente prodigato può possedere. L’avvento di un Capo implica un sacrificio” (pag. 355).

Ma: come si perviene a una siffatta conclusione? Qual è il significato reale che bisogna attribuire alle parole che, in particolare, l’autore riporta con l’iniziale maiuscola?

Per rispondere a queste domande, in base al meccanismo letterario che presiede alla narrazione dei fatti da parte degli Annalisti, occorre innanzitutto ribadire che quegli stessi principi e schemi a cui abbiamo accennato servono alla trasposizione di valori inizialmente religiosi, legati al rapporto tra gli uomini e le potenze della Natura, in valori morali, legati ai rapporti tra gli uomini all’interno delle diverse comunità religiose e civili.

Pertanto, all’inizio, il Sacrificio Umano è la fonte essenziale della Virtù. Ma in merito a questo assioma che è posto a fondamento dell’intero sistema, prima religioso e poi civile, occorre chiarire: si tratta di vero e proprio cannibalismo, o meglio endocannibalismo, oppure di altro?

Seguendo l’excursus letterario e quindi storico di due apparenti contrapposti principi o massime – quali per l’appunto: <gli dei assaggiano solo offerte della loro specie> e <non si sacrifica il simile al simile> -, Granet scrive che: Così, come è formulato, il principio: non si mangia il proprio simile, sembra riferirsi a un’epoca in cui i festini rituali erano offerti a esseri dall’essenza animale e, inoltre, pare che sia subentrato a un principio inverso (…) Erano allora solo gli Dei a mangiare, alla lettera, i propri simili: gli uomini, per nutrire le loro sostanze emblematiche, consumavano solo animali” (pag. 131).

Ma, chi sono e che forma hanno gli Dei?

In proposito, Aristotele sembra non avere alcun dubbio, dato che scrive: “I nostri progenitori delle più remote età hanno tramandato ai loro posteri una tradizione, in forma di mito, secondo cui questi corpi sono dèi e il divino racchiude l’intera natura. Il resto della tradizione è stato aggiunto più tardi in forma mitica … essi dicono che questi dei hanno forma umana o son simili ad alcuni degli altri animali … Ma se si dovesse separare il primo punto da queste aggiunte e lo si considerasse da solo – il fatto cioè che essi pensavano che le prime sostanze fossero dèi – lo si dovrebbe ritenere un’enunciazione ispirata e riflettere che, mentre probabilmente ciascun’arte e ciascuna scienza sono state più volte sviluppate fin dove era possibile per poi perire di nuovo, queste opinioni, assieme ad altre, sono state preservate fino a oggi come reliquie dell’antico tesoro” (da G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi 2000, pag. 183).

Ciò detto, proseguiamo la lettura di Granet: “Quando gli Dei (perlomeno i grandi Dei) apparvero dotati di una natura interamente umana (e non più di una natura mista), quando essi furono principalmente concepiti sotto forma di Antenati Umani, il principio delle comunioni di sostanze avrebbe potuto condurre alla pratica (n.d.r.: ritenuta essenzialmente “barbarica”) del cannibalismo e, più precisamente, dell’endocannibalismo … (op. cit., pag. 131).

Parallelamente, analizzando e sviluppando i <fatti> degli antichi testi vedici, Roberto Calasso in L’ardore scrive che: Una volta accadde che gli Asura, arroganti, “continuavano a sacrificare nella propria bocca”, mentre i Deva preferivano sacrificare gli uni agli altri. A quel punto il loro padre, Prajapati, elesse i Deva e affidò a loro il sacrificio (edizione Adelphi 2010, pag. 37). A parte la spiegazione proposta da Calasso, e la teoria del ciclo delle reincarnazioni che presiede al sistema della creazione vedica, il principio del sacrificio cannibalico sembra dunque appartenere a una letteratura, quella cinese, che, conclude Granet, in generale e fatte salve rare eccezioni (Dio-Serpente, Orso, Lupo, etc.), “non conosce, per così dire, dei che non siano antropomorfi”; anche se dire ciò non significa affatto rinnegare il fatto ancestrale del sacrificio umano, che, viceversa, anche nell’ambito dei principi degli Annalisti cinesi, “s’impone a un potere che viene inaugurato o che si estende” (M. Granet, op. cit., pag. 132, s.).

Il Sacrificio (suicidio volontario, suicidio imposto o esecuzione), così come attuato, manifesta la Virtù, sia del vincitore che del vinto, in merito al beneplacito della POTENZA DIVINA (Dio o Natura) che, in quanto UNO, ha il potere di determinare la FORTUNA (ovvero i possedimenti o i beni ereditati e conquistati) sia dell’uno che dell’altro in qualità di capo di una famiglia o di una comunità più vasta.

La pratica della Virtù ha qualcosa dell’ordalia, perché è all’esito della prova che sia il vincitore che il vinto conosceranno la FORTUNA e cioè il DESTINO che apparterrà, in contrapposizione, all’uno e all’altro. La Virtù (TAO) è Jang. Pertanto: la Virtù che è UNA, alla base della propria UNITA’ è DUE: perché essa è una sintesi dello Yin e dello Yang: in essa si uniscono e si contrappongono le Virtù concorrenti del Cielo e della Terra, del Sovrano e del Ministro, dell’Alto e del Basso, della Sinistra e della DestraEssendo UNA e DUPLICE, essa è TRIPLICE … (pag. 475).

Ma, al di là del rito estremo del Sacrificio, qual è il principio morale che s’impone alle diverse comunità familiari, religiose e civili al punto che tale principio segna il passaggio evolutivo, <moderno> e <attuale>, segnato dalla comparsa del potere signorile e del contratto di vassallaggio? Granet sostiene l’ipotesi che si tratti di una “trasformazione della morale feudale in una morale nobile, creata dai letterati, a vantaggio di tutti” (nota n. 2, pag. 61). Ed è “nello stesso periodo in cui avveniva un divorzio tra la morale e le altre tecniche, (che) queste furono raccolte dai taoisti. E’ all’epoca delle scuole itineranti e specializzate che si deve far risalire la separazione del pensiero cinese in due grandi correnti. Esse si trovarono in netta opposizione solo all’inizio dell’era imperiale: ne risultarono la Scuola confuciana e la Scuola taoista” (nota n. 3, ibidem). Qualcosa di molto simile a quanto accaduto nelle diverse civiltà dell’epoca durante quello che Karl Jaspers chiama “periodo assiale”.

E dunque, il principio-cardine di questa morale è lo <Jang>. Che, per quanto sintetizzato, non può che dar luogo a una TEORIA essenzialmente DUPLICE.

Quando Chouen ebbe compiuto la sua prima prova, Yao gli CEDETTE l’Impero (jáng).
Allorché Chouen cede l’Impero a Tan-tchou, Chouen conserva l’Impero; allorchè Yao cede l’Impero a Chouen, Chouen prende l’Impero e Yao non lo conserva.
Jáng significa: cedere il passo quando si ha il diritto di prenderlo e quando, in realtà, lo si prenderà. Jáng vuole anche dire: cedere per ottenere, cedere per possedere.
Jàng vuole dire: prendere con la forza, espellere; questa parola viene usata per jâng: riti di espulsione, espellere con l’aiuto dei riti (pag. 231).

Concluderei dicendo che il fatto letterario in questione appare del tutto emblematico, dall’inizio di un’epoca remota all’attualità. A questa annotazione, ne aggiungo un’altra, per qui concludere, di Granet:

Suggerisco l’ipotesi che segue: il Capo potè sostituirsi, Lui e la sua Città, al Luogo santo in cui si svolgevano le nozze contadine, regolatrici dell’Ordine naturale, grazie a un prestigio di cui ottenne il beneficio in quanto, Maestro di fabbri, sapeva fabbricare, servendosi di unioni sante e tragiche, tripodi, armi e tamburi divini per le danze cerimoniali e le danze di guerra (pag. 51).

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

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