Madrignani su Fucini, razzista?

Madrignani su Fucini, razzista?

Madrignani su Fucini, razzista?

Madrignani su Fucini, razzista?

Fucini, Napoli a occhio nudo, 1878, credit Antiche Curiosità©

 

Madrignani su Fucini, razzista?

Mary Blindflowers©

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Gli accademici attuali non fanno che parlare di transculturale, termine quanto mai aleatorio, specialmente in bocca a soggetti che si riferiscono soltanto tra loro anche nelle bibliografie, escludendo tutti gli altri liberi ricercatori, in una dinamica di chiusura culturale totale, tipica della casta. Ebbene, gli illuminati professori universitari che non citano mai fonti al di fuori della loro casta, (ci mancherebbe!) che applicano un criterio di chiusura totale verso forme culturali non inserite nell’esclusivo nepotistico tessuto universitario, poi eccoli! Parlano tanto di integrazione dei popoli e di transculturale, considerando contemporaneamente sterco secco tutto quello che non è accademico. Con le loro formulette pre-impostate nei saggi divisi rigorosamente in tre parti: premessa, parte centrale ovvero dimostrazione e finale conclusione, adesso i gran prof., hanno scoperto l’acqua calda e cercano ovviamente, in accordo con la politica attuale da cui sempre pendono come dalle labbra di dio, di dire a tutti: amici, siamo tutti uguali! Hanno finalmente capito che le culture un tempo considerate “inferiori”, da loro stessi, non lo sono affatto! Caspita! Che assioma rivoluzionario! Ergo, mentre prima le arti dei luoghi colonizzati erano considerate di second’ordine e gli artisti di questi Paesi, poco più che artigianelli maldestri, ora c’è la tendenza contraria, ossia interpretare testi letterari, dipinti e opere di architettura, sulla base di un ipocrita senso di integrazione universale, dato che l’arte ormai è diventata globale.
In teoria il transculturale, derivato dai concetti precedenti di interculturalità, è diventato di gran moda, un vestitino da indossare per tutte le nuove stagioni dell’ipocrisia.
Il valore di ogni espressione artistica, viene sottolineato a più riprese, come se fosse una scoperta nuovissima e non un dato ovvio, immeschinito in passato proprio da accademici e medici in accordo col potere politico e gli interessi economici.
Poi si rilevano le contraddizioni di tutto questo movimento transculturale a parole e chiuso nei fatti. Mentre infatti gli accademici si riempiono i becchi con termini alla peace and love, in accordo con la linea superficiale-buonista dei governi attuali, si dimenticano, in perfetto stile fumo negli occhi, che l’imperialismo non è mai morto e che l’attuale assetto mondiale-globale, non si basa sul noto  amiamoci tutti, ma sulla guerra imposta dalla finanza e dal neocolonialismo.
Mentre i buoni prof. valutano in teoria un’opera d’arte con l’occhio finto bovino di chi accetta la diversità dei punti di vista e delle espressioni artistiche, nella pratica non citano mai altre fonti se non i professori della loro area politica di riferimento, tant’è che spesso capita di leggere saggi diversi che, a forza di riferirsi in circolo chiuso, finiscono con il dire tutti la stessa cosa.
Se da una parte il professorone doc parla di integrazione, dall’altra tace sulle reali intenzioni neo-colonialiste dello stesso potere politico che serve come buona ancella, perché l’accademico è la moglie di tutti i mariti e il marito di tutte le mogli, da sempre. E se si occupa di letteratura o di arte, considera soltanto opere a larga diffusione, pubblicate con editori importanti, perché la cultura è diventata un’operazione di marketing che i professoroni avallano in pieno, altro che integrazione!
L’accademico è come un gatto che finge di fare l’avvocato difensore del topo e perora la causa del sorcio in pubblico per poi mangiarselo in privato e fare i beati affari suoi, portando figli, nipoti e amici degli amici in quel tempio della cultura chiamato università che è nato per molti, ma non per tutti.
Un’altra operazione molto cara all’accademico è la manipolazione dei testi letterari a seconda delle esigenze del momento e dei diktat del potere politico.
Sapete che un’opera può essere studiata secondo approcci analitici molto differenti. Facciamo un esempio pratico. Giuseppe Domenico Basile, «Napoli a occhio nudo» di Fucini e la nazionalizzazione di un universo discorsivo ‘orientalizzante’ sul Mezzogiorno in I cantieri dell’Italianistica, Adi Editore 2014, analizza un libro di Renato Fucini: Napoli a occhio nudo, Lettere a un amico, Le Monnier, 1878, un libro che ho letto.
Basile cita Madrignani:

Nel 1919 l’opera fu ristampata con la prefazione di Fortunato e, a suggellare l’appartenenza all’orizzonte discorsivo meridionalista, sta la collocazione al primo posto nella collana vociana La Questione Meridionale. Nonostante Fucini descriva più le bellezze pittoresche di Napoli che la miseria dei suoi abitanti, i passaggi sulla povertà delle abitazioni e sul degrado umano e ambientale bastano a fare dell’opera il tassello di un discorso che si percepiva in polemica col pittoresco. I pochi dubbi espressi dalla «Rassegna Settimanale» furono relativi al prevalere dell’elemento poetico su aspetti sociologici ritenuti accuratissimi, e ad oggi spicca il pionieristico giudizio di Madrignani, secondo cui «il “verismo” di Fucini si carica degli umori razzistici propri di un colonialista toscano di fronte ad altre civiltà meno coltivate e meno “pulite”».

 

Madrignani il cui giudizio su Fucini venne espresso negli anni Settanta, viene rispolverato nel 2014 da Basile come giudizio di spicco perché siamo nell’epoca del politicamente corretto.
Ma siamo sicuri che Fucini fosse razzista e che Madrignani non avesse preso una cantonata basata sul senno di poi?
Un razzista denigra e basta, tende al disprezzo totale del popolo che osserva. Fucini invece rileva le contraddizioni di Napoli tra miseria e nobiltà. Per esempio, quando parla del carattere dei napoletani scrive:

 

… non è facile trovare tra loro persone di servizio. Ogni lavoro che li obblighi lo scansano con ribrezzo, e non vi si adattano finché il bisogno non li abbia presi per la gola. Da questa tendenza della loro indole e dalla scarsità di opifici che potrebbero accogliere quelli che stretti dalla necessità, vi si adatterebbero, resulta quella enorme moltitudine di semioziosi… (p. 26).

 

Lo stralcio suindicato, così estrapolato, sembrerebbe avallare l’immagine stereotipata del napoletano indolente, in realtà non è così, ecco perché occorre leggere bene un testo nella sua interezza e non fidarsi dei pareri di spicco. Subito dopo Fucini infatti precisa:

 

Alla stanchezza per il lavoro fatto si aggiunge l’influenza del clima, e allora chi casca di qua e chi di là, e tutti si buttano allo sdraio sui muriccioli, sui marciapiedi… in qualunque luogo insomma dove ci sia da schiacciare un pisolino in pace, presentando così agli occhi dei passanti quel pittoresco, ma ributtante spettacolo che forse ha fatto alquanto esagerare l’idea che generalmente si ha della fiaccola e della indolenza di questo popolo. Son troppi quelli che abbisognano di lavoro, di fronte al movimento industriale e commerciale del paese, onde molti, lo ripeto, rimangono involontariamente inoperosi; ma quando offriamo loro da lavorare, è un’atroce calunnia almeno ora, il dire che lo ricusino, perché hanno mangiato. Sono stato troppe volte e sul molo e nei quartieri poveri, dove abbondano gli sdraiati e gli addormentati e troppe volte ho fatto la prova, destandoli e incaricandoli di qualche piccola commissione e qualche volta anche grossa e faticosa, e mai mi sono sentito rispondere il famoso aggio magnato. Sorgono in piedi come se scattassero per una molla, si stropicciano gli occhi e per pochi centesimi si mettono alle fatiche più improbe, fanno due chilometri di strada correndo e ritornano ringraziandovi, domandandovi se comandate altro, e scaricandovi addosso un diluvio di eccellenze e di don, come se avessero da voi ricevuto il più grosso favore del mondo.
Gli ho osservati nelle loro botteghe, passando per le vie, ed ho visto che lavorano; sono stato a visitare opifici, e ne sono uscito con le mie convinzioni più radicate che mai… Chi ha gambe venga e chi ha occhi veda… quando hanno da lavorare lavorano e la loro opera è intelligente e produttiva al pari di quella di qualunque altra popolazione della penisola (pp. 27, 28).

 

Praticamente sta dicendo che lo stereotipo del napoletano indolente, è falso, che sembra indolente soltanto perché manca il lavoro  e quando gli si dà qualcosa da fare, lavora e ringrazia pure. Non mi sembra l’opinione di un razzista colonialista questa e nemmeno l’opinione di uno che procede solo seguendo stereotipi. Scrive invece Basile:

 

Ogni tassello dell’universo retorico-discorsivo sul Sud entra a far parte dell’immaginario baule che Fucini intende portare con sé a Napoli…

 

Fucini, in realtà, lungi dall’avallarli, supera certi stereotipi sui meridionali e descrive quello che vede, sottolineandone la contraddittorietà evidente anche con termini oggi giudicati offensivi.

Invece di citare Madrignani e accettarne gli errati giudizi, utili per l’elastico del politicamente corretto, forse sarebbe stato meglio confutarlo, perché gli umori razzistici in Fucini non sono il dato essenziale, nonostante la spregiudicatezza offensiva dei giudizi, (si muove infatti tra lode e disprezzo e non unicamente a senso unico). “Lo slittamento verso la dimensione extraeuropea” inoltre non è poi così “costante” come afferma Basile, tutto teso a dimostrare la sua tesi orientalizzante e globalizzante dell’opera letteraria. Basile cita con molti punti di sospensione omissivi e soltanto i pezzi che artatamente avallano la sua teoria, quelli in cui Fucini dice che Napoli gli ricorda la Catalogna o il Cairo, ma sono frammenti di impressioni che non rappresentano di certo l’essenza del testo. Simili operazioni sono tipiche di chi guarda il dito e non vede la luna, perché deve dimostrare una tesi predefinita e cerca le pulci nel campo di grano, pur di darsi ragione. Basile interpreta Fucini nell’ambito di un discorso forzatamente orientalizzante del Mezzogiorno, sempre in  accordo con l’attuale politica transculturale e citazionista.

 

Si analizza Napoli a occhio nudo di Renato Fucini, facendo dialogare le strategie retorico-discorsive che nel testo costruiscono l’immagine di Napoli con il dibattito sui processi di ‘orientalizzazione’ del Mezzogiorno. Se per ‘orientalismo’ si può intendere «il distribuirsi di una consapevolezza geopolitica entro un insieme di testi poetici, eruditi, economici, sociologici, storiografici e filologici» (E. Said), allora può avere senso chiedersi «come e quando l’Italia meridionale è divenuta “il Sud”, un luogo e un popolo immaginato diverso […]; un serbatoio di residui feudali, pigrizia e squallore da un lato, di contadini pittoreschi, tradizioni popolari ed esotismo dall’altro» (N. Moe). La letteratura italiana post-unitaria sul Mezzogiorno è presa in esame, allora, in quanto valido banco di prova per indagare i caratteri testuali di quello che appare un particolare processo di nazionalizzazione di un universo discorsivo sul Mezzogiorno, nato dallo sguardo eurocentrico del Grand Tour (Basile).

 

Insomma, ognuno può vedere ciò che gli aggrada e gli fa più comodo nell’arte. Si usa.

 

Fucini scriveva nell’Ottocento, quando ancora si potevano rilevare i movimenti contraddittori delle realtà, quando ancora si poteva dir cencioso riferito ai poveri, cieco, storpio e scimmia a due mani, riferito alla degradazione morale in descrizioni politicamente molto scorrette, laddove oggi si parla ipocritamente di non abbienti, di diversamente abili e di immoralità, mentre si continua a fare comunque e soltanto il gioco dei potenti, pensando una cosa e dicendone un’altra, ammantando di zucchero filato ogni parola che si dice, chiudendosi in posizioni elitarie, mentre si parla di aperture culturali. La rivoluzione è chiaramente in superficie, rimangono soltanto ipocrisie verbali. C’è il rischio che tutta l’ansia moralisticheggiante che anima oggi molti commentatori, si trasformi in censura, sicché si passa da un estremo all’altro, dal politicamente scorretto di espressioni che oggi suonano razziste, al bavaglio più completo, all’integrazione a parole ma non nei fatti concreti, all’omissione dello sgradevole, del brutto, per parlare soltanto di aspetti positivi del reale.

A questo punto una domanda si impone. Che differenza c’è tra un accademico che manipola un testo per accordarsi con la politica attuale e un utente medio di fb che condivide qualsiasi sciocchezza diffusa dal partito che vota?

Solo una differenza di prestigio.

 

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

Comments (2)

  1. Mariano Grossi

    A questa gente interessa solo la Napoli semiarresa di “Napul è” senza andare a.fondo della convivenza coatta con la malinconia del sopravvivere dallo stesso autore cantate in “Cuanne chiove” o “Schizzechea”. Ma siamo sicuri che i baroni accademici le conoscano appieno?

    1. Destrutturalismo

      Ma secondo te è più razzista un autore dell’Ottocento che usa termini politicamente scorretti, loda e affossa, oppure un accademico che parla di integrazione e poi esclude dalla casta chiunque non faccia parte del suo girin girello? Esiste qualcosa di più razzista del nepotismo universitario? Io non credo. Qui siamo al bue che dice cornuto all’asinello.

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