Bevilacqua, Il bosco di Giona

Bevilacqua, Il bosco di Giona

Bevilacqua, Il bosco di Giona

Bevilacqua, Il bosco di Giona

Bevilacqua, Il bosco di Giona, credit Antiche Curiosità©

 

 

Mary Blindflowers©

Bevilacqua, Il bosco di Giona

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Sandro Bevilacqua, Il bosco di Giona, Cappelli 1958, è una raccolta di racconti brevi di stampo bucolico in cui l’antropomorfizzazione della natura, diventa una identificazione panica. La scrittura è meravigliosa, bella prosa davvero, i contenuti ci sono. Il tema della guerra, della condizione umana e delle sofferenze animali, vien trattato ampiamente con induzione alla riflessione. Probabilmente negli anni 50 non era così usuale preoccuparsi per esempio, dei cavalli portati a morire in nome di guerre che non hanno voluto, vittime inconsapevoli e innocenti. Bevilacqua ne parla.
Tuttavia finisce, purtroppo, con l’incartarsi nella sua stessa meraviglia che, girata a loop, produce un certo sostanziale grado di noia, nonostante la profondità dei contenuti. Si tratta di un problema di stile. L’autore brucia in parte le sue potenzialità comunicative, depauperando la scrittura di quel graffio necessario per incidere la pagina e la mente del lettore. Il lirismo diventa barocco, ridondante, iper-presente anche laddove occorrerebbe una virata potente, un cambio di rotta che interrompesse l’assurda linearità della narrazione. I periodi di susseguono uguali ai periodi, e nonostante la scorrevolezza, fanno addormentare, circoncluzioni, giri di parole gradevoli e idilliache, descrizioni eccessive, aggettivi qualificativi che sovrabbondano, fanno cadere il libro in una sorta di inerzia o letargia stilistica che avvolge ben presto anche chi legge. Il processo è purtroppo inesorabile. Lo stucco lirico con cui vengono affrescate la pareti dei racconti non ha altro controcanto che ulteriore traboccante lirismo e poi ancora, all’infinito, lirismo e altro lirismo, in un moto che non ha fine.
Ci si sente stanchi. Confesso che all’ottantesima pagina già non ne potevo più. Resistere alla diabolica tentazione di buttare il libro dalla finestra, non è stato facile e se ho resistito è solamente perché la prosa è bella, ma la bellezza non basta, occorre di tanto in tanto anche stupire attraverso cesure che minino l’assurda monotonia delle parole.
Purtroppo ancora oggi il vizio di proporre romanzi o racconti con stile lineare, non è morto. Ci sono editori che aborrono le cesure, giudicandole poco adatte alle vendite, dato che ormai solo di questo ci si preoccupa. La linearità della scrittura diventa così sacra, perché il lettore non sarebbe abituato alla sperimentalità che scuote, insomma non capirebbe le virate sagaci che potrebbe giudicare “stranezze”.
Ciò che invece io non capisco, è l’utilità di leggere un’opera che non interrompe mai se stessa, che non osa contraddirsi, insinuare dubbi nella stessa narrazione.
Così Bevilacqua, come tanti scrittori di oggi che scrivono peggio di lui, procede sicuro, come un’onda mai nata, una brezzolina leggera che non riesce nemmeno a muovere le foglie o ad increspare la superficie del mare. Calma piatta.
E ti vien da dire e ridire, peccato!
Altro punto no è rappresentato dalle descrizioni, pagine e pagine che hanno il solo scopo di descrivere e i personaggi sembrano piccini piccini, immersi poverini, in questo magma descrittivo che parossisticamente gira e rigira e si impana e si frigge tutto da solo.
Bevilacqua descrive senza posa, è prolisso, si dimentica ad un certo punto di caratterizzare perfino i protagonisti e ci dice come appaiono i monti, di che colore sono i campi e la terra, a che distanza si trova un certo bosco di cipressi e di abeti dal villaggio e com’è dolce il sole e com’è soave l’ambiente e come sono felici gli insetti, insomma una serie di immagini di cui possiamo tranquillamente fare a meno e che occupa troppo spazio nei racconti, diventando ad un certo punto stucchevole come un dolce con troppo zucchero. Le descrizioni d’ambiente sono spesso slegate dalle vicende, del tutto gratuite, pleonastiche, ridondanti, evocative di classicismi appiccicati a forza:

Il sole, protagonista adorabile di questo tramonto che non dimenticheremo, domina ancora l’epica scena con la sua fiamma da battaglia fremente e da spaventoso cataclisma. Le barche ormai prossime al porto dipinto di sangue, ci fanno immaginare le gondole per la regata di addio alla salma di Otello, eroe sanguinoso e sanguigno. E le musiche che a questo punto dai boschi infiammati sul tronco, sui rami e sulle foglie, innalzano cantori invisibili e prodigiosi gli uccelli, alle nostre orecchie che rintronano di trombe e di ricordi guerrieri, suonano come melodie sfuggite da strumenti perfetti e mai uditi fabbricati col sangue da artefici vestiti di rosso (Dal racconto Tramonto sul lago).

Allora le piante si aprivano e si donavano al sole con voluttà femminile, l’erba dei prati assomigliava all’acqua del mare nella tinta intensa e nella calma che nessuna cosa poteva violare o attenuare anche per un attimo, la marcia dei greggi e degli armenti nella valle era accompagnata dalla musica degli uccelli e dagli occhi d’oro dei fiori selvatici… (Dal racconto Cavallo all’isola).

I grani bianchi e sfuggenti, senza vera forma definita, saettavano nel cielo basso sempre più nero, come uccelli tristi e d’un tratto misteriosamente impazziti; alcuni nuotavano nell’aria flagellata dal vento, con fragore picchiavano contro gli alberi e si spezzavano sui muri delle fattorie assaliti senza pietà dalla pioggia. La caduta della tempesta sulla immobilità quadrata dei tetti e sulla compattezza malinconica della terra, suggeriva immagini non soltanto pittoresche ma umane. La tempesta in quel giorno spento di sole e in quell’ora feroce di vento e di fulmini ampi, rintronanti come passi d’eserciti nella vallata che si preparava ai calmi riposi sulla terra e sulla paglia, assumeva un’apparenza e una voce umana. Il candido diluvio scrosciante… (Dal racconto Tempesta al villaggio).

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Ripeto, peccato per questa abusata retorica descrittiva che rovina tutto!

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