Poesia, scarto, cortocircuito, spazzatura

Poesia, scarto, cortocircuito, spazzatura

Poesia, scarto, cortocircuito, spazzatura

Poesia, scarto, cortocircuito, spazzatura

Lo spaventapasseri, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Poesia, scarto, cortocircuito, spazzatura

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Poeta-water, non parlo irriverentemente del Vate a cui si aggiunge una r, scherzetto abusato e che nemmeno fa più presa, bensì l’impresa di un rapporto più profondo che gioca tra il cielo e il fondo e che si basa sul consolidato ma sempre rinnegato rapporto di amore-odio tra il poeta e il cesso.
Che questo legame essenziale esista, è un fatto che la critica letteraria ha tentato di esorcizzare sempre con belle parole ad effetto, poetica dello scarto, balbuzie del rimasuglio e dell’avanzo, ritorno alla primitività del suono attraverso un balbettio onomatopeico, funzioni o meglio disfunzioni cortocircuitali, etc. Si veda ad esempio la critica su Palazzeschi e sulla sua rubrica Spazzatura, rinvenibile nella rivista fiorentina Lacerba (1913-1915), laddove il poeta vuole giocare con la letteratura. Mentre la critica filosofeggia utilizzando parole che innescano un tentativo di elevazione della parola verso l’alto, il poeta nasce e cresce dallo scarto:

Sapete cosa sono?/ Sono robe avanzate/ non sono grullerie/ Sono la spazzatura…/ delle altre poesie… / Certo è un azzardo un po’ forte/ scrivere delle cose così,/ che ci sono professori oggidì,/ a tutte le porte…

In tutte le culture, l’uomo colto è quello che non perde il legame coi propri visceri, alter ego innominabile della sensibilità, elemento pestifero presente subliminalmente ovunque quando si parla di parola scritta.
La poesia, sebbene sia associata, secondo logiche del tutto fasulle, a immagini di voli, di sinuose delicatezze da operetta o di cieli tersi e azzurri miscelati a sentimenti di nobile elevatezza morale, è in realtà uno scarto a tutti gli effetti, lo stesso dicasi per la letteratura. La presenza di farfalline, uccelletti, pianeti, distanze infinite, atmosfere setose e quant’altro, non può in alcun modo eliminare la vera natura della poesia che è sempre quella di essere scarto.
Lo scarto è infatti il prodotto della digestione.
Senza cibo non vi può essere quell’operazione di lavorazione della materia che si trasforma magicamente in energia e i cui residui diventano materia fecale.
Il cibo della letteratura e della poesia è la vita, la digestione della stessa è la creativa alchimia di un lavoro interiore che porta allo scarto alias poesia. In poche parole e senza usare eufemismi, la poesia è merda, ossia il prodotto derivato da una digestione. Non si scrive infatti in acuzie, sotto la spinta di tensioni emozionali, ma sempre in fase post-emotiva, quando la digestione è ormai compiuta e si è avuto il tempo di digerire il fatto scatenante la scrittura. Che il fatto che porta allo scarto poi si infioretti di belle immagini dimenticando da dove viene, ha poca importanza nell’economia del rapporto poeta-water. Il water infatti è il contenitore della poesia e delle belle lettere, il poeta è solo un defecatore, la poesia una defecata. Il poeta vero non abita sull’Olimpo, non si illuda, vive sul water. Chi rinnega il water per il Parnaso non è un poeta, è un mentitore. Soltanto la poesia che è scarto è poesia, perché è stata sufficientemente e visceralmente elaborata, il resto è artificio retorico, esercizi di stile, zucchero che serve per ricoprire torte da distribuire agli amici.
Spesso, fattore non trascurabile, le idee migliori vengono durante la liberazione fisica dallo scarto, proprio perché tra mente e corpo si crea una simbiosi. Per questo motivo chi è poeta legge e crea spesso sul cesso e chi no sulla punta acuta del Parnaso nella cui vetta ha infilato l’ano mentre cerca così di speteggiare e mandare i suoi profumi ovunque, nel disperato tentativo di dimostrare di essere un poeta a tutti.
L’ulteriore dimostrazione che la poesia sia merda è data dal fatto che il vero poeta la produce suo malgrado, come atto naturale e legittimo che richiede qualche sforzo qua e là, se non addirittura nessuno.
Il massimo a cui può aspirare un poeta laureato, un professore d’oggidì, tanto per dirla con Palazzeschi, ma proprio il top della sua categoria, dovrebbe essere un’operazione semplice: disincastrarsi dalla punta della vetta parnasiana e correre a pulire il cesso, grande esercizio di umiltà, e chissà che pulendo, pulendo, strofinando, sfregando e lucidando, non digerisca e produca una poesia tra un brontolio e l’altro che può diventare scarto vero.

Scriveva Nalin: Me spiego: in vernacolo/ mi vogio tratar/ sul gusto magnifico/ sul don del cagar.

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Comment (1)

  1. GIANMCARLO

    I Cialtroni che si credono Dio mi fanno incazzare.

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