Schwa, espresso modesto stupidario

Schwa, espresso modesto stupidario

Schwa, espresso modesto stupidario

Schwa, espresso modesto stupidario

Incisione originale di Zivko Djak, 48/90, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers & Mariano Grossi©

Schwa, espresso modesto stupidario

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Crediamo fermamente alla rivoluzione delle lettere che narrano non solo se stesse, ma il mondo intero e le realtà piccole e grandi, nonché le storture del tempo che lo scrivente si trova a dover vivere, attraverso neologismi, sperimentazioni contro il buon senso comune, creative e fresche espressioni che utilizzano, perché no, anche il surreale, per parlare del reale. Non crediamo alle finte rivoluzioni pilotate dai partiti e che hanno un non vago sapore di propaganda politica, proposte da “scrittrici” che col partito hanno fatto carriera e sono diventate il suo manifestino vivente.
Non crediamo altresì che negando il valore della punteggiatura si faccia sperimentazione, perché i punti, le virgole, i due punti, il punto esclamativo, i punti sospensivi e quant’altro, sono nati dall’esigenza di dare un respiro vivo al testo, di riprodurre pause, stati d’animo, silenzi. Non ha senso per noi usare il punto a casaccio e scrivere minuscolo subito dopo, o usare la virgola come viene viene che tanto è lo stesso.
Sono rivoluzioni queste che non intaccano la sostanza dell’arte e della comunicazione, tutte esteriori, che non servono perlopiù a nulla, anzi eliminano per un lettore la possibilità di intuire i ritmi respiratori dello scrivente.
Non amiamo neppure le sostituzioni populiste e buoniste, non vedente al posto di cieco, non udente al posto di sordo. Non c’è nulla di offensivo nelle parole cieco o sordo se non nella mentalità di chi sente o legge. Il peccato non è la parola in sé ma il modo in cui viene percepita da un mondo falsissimo che pensa di rivoluzionare se stesso attraverso la negazione della storia, della parola stessa.
La storia percepita come vergognosa, da cancellare, o meglio edulcorare in nome di un politicamente corretto che ha stancato anche la fissa immobilità delle pietre, per quanto è ipocrita e pilotato, è la sintesi di un potere sottile che impone non disinteressatamente la cancellazione della memoria o la sua sostituzione con elementi più accettabili al gusto contemporaneo.
Scriviamo e parliamo in un certo modo perché abbiamo avuto una storia che non sempre è stata edificante. Non si può cancellare con un colpo di spugna ciò che è stato ma si può riflettere sul valore dell’errore storico, sulla memoria, sull’importanza di non ripetere l’orrore e gli errori del passato, lezione che invece viene costantemente trascurata a favore di una superficialità d’intenti che si autoconvince che, modificando la lingua con un ridicolo schwa, si faccia una grande rivoluzione letteraria.
Dopo sindaca, ingegnera e assessora, che suonano sgradevoli all’udito, introdotte per non discriminare le donne, come se le donne potessero sentirsi discriminate dall’uso storico di una parola e non invece da gesti, atteggiamenti, violente mentalità maschiliste e retrograde, ecco sua maestà lo schwa. L’infelice sovrano compare dentro poco rivoluzionari ed insignificanti articoli di una signora che, secondo molti, farebbe la scrittrice. Lo schwa sarebbe, secondo questa mente illuminata, l’apriti sesamo contro le discriminazioni di genere. Da quando in qua queste si combattono nei salottini tv?
La pronuncia di questa nuova meravigliosa scoperta letteraria? Ah fate un po’ voi, tanto siamo nel regno dell’approssimazione linguistica, dentro uno stupidario che si spaccia pure per evoluzione.
C’è una pericolosa tendenza in atto. Si complica il semplice ma soprattutto si cancella. Per secoli la società è stata maschilista, la lingua è una sua riflessione perché porta greve il carico della storia che ha attraversato e che non può essere cancellata con rapidi colpi di spugna. Non si può eliminare la storia o renderla corretta, non si può indorare la pillola con ridicole sostituzioni. La storia va compresa sia nel bene che nel male, presa per le corna, affrontata a viso aperto e sincero.
Spiegare alle nuove generazioni perché si dice assessore invece di assessora, o perché se ci si riferisce a un gruppo di persone in cui c’è un solo uomo e tutte donne, si usi comunque il plurale maschile, significa far capire che la storia non è una reliquia santa modificabile a seconda delle esigenze del proprio partito di riferimento, ma un insieme di vicende che vanno costantemente ridiscusse e che non sempre sono state giuste ed eque per tutti, specie per le donne. La nostra storia è fatta di sangue, di orrori, di discriminazioni, di misoginia. La lingua è un prodotto di tutto questo, che ci piaccia o no. La ridiscussione proprio per tale motivo, non può avvenire in superficie, ma nel campo di una critica profonda e matura capace di destrutturare il reale per costruire, non per distruggere o sotterrare ciò che ci ricorda quello che non ci piace sotto la sabbia come fanno i gatti.
La sociolinguista Vera Gheno asserisce che “Lo schwa, dal punto di vista semantico, può funzionare come genere indistinto, perché indica un suono che sta al centro del rettangolo delle vocali, quindi è neutro come pronuncia: la vocale media per eccellenza. Per questo, mi sembrava particolarmente adatto a indicare “un genere indistinto”. Lei stessa, però, ha specificato che “nessuno sano di mente ha mai detto: ‘Aboliamo i generi e usiamo il genere indistinto’. Però ci sono persone che si sentono a disagio con il fatto che l’italiano ha solo maschile e femminile”.
Il problema è che lo schwa ha una pertinenza fonetica in molti dialetti, il pugliese ne è esempio tipicissimo, che si abbarbica sia al genere femminile (la uagneddə), che a quello maschile (u uagnonə), in quanto rappresenta la espressione acustica di un suono breve di timbro appena appena percepibile; nel dialetto pugliese, dove la parole mozzicano le vocali finali, in alcuni testi si rappresenta proprio con lo schwa il suono di una e mozzata, tipo quello rappresentato nella lingua tedesca dalla o sormontata dall’umlaut, il segno (¨) che in quella lingua indica la palatalizzazione delle vocali (Römische).
Attribuire pertanto a questo segno indoeuropeo la funzione di veicolatore di uno stato ibrido, né maschile, né femminile, rappresenta una castroneria semantica e un salto logico davvero esilarante. La fonetica non si pone minimamente il problema della rappresentabilità dell’indistinguibile, poiché in fonetica esistono da sempre il genere maschile, il genere femminile e quello neutro, per convenzione attribuibile alle cose ovvero agli animali (se si pensa ai pronomi personali it ed eso che in inglese e in castigliano si usano appositamente).
Ecco perché di fronte a una che propone lo schwa dentro articoli, peraltro contenutisticamente modestissimi, ordinari e di scarso interesse, si può soltanto ridere o piangere, considerando che simili castronerie totalmente digiune di linguistica oltre che di senso storico, hanno spazio nella stampa nazionale a larga tiratura. Un modo come un altro forse, per farsi notare e far parlare di sé. Mezzucci efficaci di sicura pubblicità d’espresso stupidario della bacata contemporaneità.

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Rivista Il Destrutturalismo

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