La favola di Amore e Psiche

La favola di Amore e Psiche

La favola di Amore e Psiche

La favola di Amore e Psiche

Apuleio, l’Asino d’oro, Formiggini, 1927, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

La favola di Amore e Psiche

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La favola di Amore e Psiche contenuta nelle Metamorfosi o Asino d’oro di Apuleio, è la storia dell’amore contrastato tra un dio ancora adolescente e dipendente da Venere, sua madre, e una donna bellissima, Psiche.
Il linguaggio usato da Apuleio è raffinato, ricchissimo di simboli iniziatici che segnano il percorso di due anime verso la pienezza.
Leggere le varie, spesso forzate, interpretazioni della favola, non è appagante, occorre andare al testo originale che rende con immediatezza, ambienti, situazioni e stati d’animo complessi, trasportandovi in un mondo mitico ma anche surreale e magico-simbolico.
I favolisti moderni non si sono inventati nulla. Ci sono infatti molti elementi rinvenibili in note favole dell’Otto-Novecento, ripresi anche ai nostri giorni ma pure topos rivalutati da stilnovismo e letteratura medioevale.
Ci sono un re e una regina che hanno tre bellissime figlie. La più bella è la sorella minore. Le due sorelle maggiori saranno cattive, invidiose e venali, (come nella favola di Cenerentola) e coi loro consigli daranno inizio alle disgrazie di Psiche che è bella quanto ingenua.
C’è l’innamoramento per fama:

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Ma di giorno in giorno la fama andava smisuratamente crescendo, e si propagava nelle isole vicine e nel continente; cosicché moltissimi, attratti da quella maraviglia del secolo, intraprendevano, per vederla, lunghi viaggi per terra e per mare… (Apuleio, Asino d’oro, traduzione di Felice Martini, Formiggini 1927, pp. 110-111).

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L’innamoramento per fama o a distanza, percorrerà come un brivido dissacrante tutto il Decamerone:

Piacevoli donne, assai son coloro che credono, Amor, solamente dagli occhi acceso, le sue saette mandare, coloro schernendo che tener vogliono che alcuno per udita si possa innamorare (G. Boccacci, Il Decamerone, IV, 4).

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Si trattava di un noto topos dell’amore cortese, usato anche da Machiavelli nella Mandragola e dagli stilnovisti. Il motivo è presente  nell’epica tedesca, per esempio, in Niebenlungenlied, Sigfrido vuole vedere Crimilde, della quale si è innamorato per la fama della sua bellezza.

Venere si ingelosisce dunque della fama di Psiche:

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Io (l’alma Venere del mondo intero), son costretta a dividere la gloria della mia maestà con una fanciulla mortale; il mio nome, riposto nei cieli, è profanato da brutture terrene; e dovrò sopportare una sostituta, alla quale, non meno che a me, si fanno sacrifici… (Apuleio, Asino d’oro, Formiggini, cit. p. 111).

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La gelosia di Venere, l’invidia delle sorelle, unita alla stimolazione della curiosità di Psiche, muovono l’azione, logorano la gabbia dorata in cui Amore ha relegato Psiche, dentro un palazzo meraviglioso, servita e riverita, con la concessione di giacere con il dio solo la notte e al buio.
Per ben due volte Psiche vuole sapere, la curiosità però le procura dei guai, sia quando guarda alla luce della lanterna di nascosto il corpo meraviglioso di Amore, sia quando apre il barattolo che le ha consegnato Proserpina nell’Ade e che la fa piombare, come la moderna bella addormentata, in un sonno profondo.
Come nelle favole moderne, ci sono poi delle prove da superare, ci sono gli aiutanti dell’eroina che si commuovono per la sua triste sorte, fino all’esito finale.
Leopardi nello Zibaldone (637-638) legge la favola di Amore e Psiche come metafora della conoscenza umana. La conoscenza è nemica della felicità:

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La favola di Psiche, cioè dell’ Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell’uomo e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che ci conveniva, che unendo questa considerazione, al manifesto significato del nome di Psiche, appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza, e cognizione della natura dell’uomo e di questo mondo… E forse l’allegoria sopradetta sarà stata osservata anche dagli altri, e così credo. Certo è che o la non significa nulla o significa quelch’io dico e mostra che il mio sistema piacque agli antichissimi: con altro sistema la non si spiega. Del resto, combinando questa osservazione col racconto della Genesi, dove l’origine immediata dell’infelicità e decadimento dell’uomo si attribuisce manifestamente al sapere, come ho dimostrato altrove, mi si fa verisimile che insomma queste gran massime: l’uomo non è fatto per sapere, la cognizione del vero è nemica della felicità, la ragione è nemica della natura, ultimo frutto ed apice della più moderna e profonda e della più perfetta e perfettibile filosofia che possa mai essere, fossero non solamente note, ma proprie e quasi fondamentali dell’antichissima sapienza, se non altro di quell’arcana e misteriosa come l’orientale e come l’egiziana, dalle quali è chi pretende derivata, almeno in parte, la mitologia e la sapienza greca.

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La conoscenza inizia con la curiosità, crea lo stato di infelicità di Psiche che, finché si trovava prigioniera dentro il grande palazzo di Amore, vivendo nell’ignoranza idilliaca degli sciocchi, non conosceva le asprezze del dolore poi causatele dal desiderio di sapere.
La conoscenza ti rende libero ma esige come pesante tributo la tua felicità.
Al di là di tutte le interpretazioni della favola, che sono numerosissime, credo che quella leopardiana, misurata e razionale, sia un buon inizio per approcciarsi al testo nel quale un lettore attento potrà scoprire, innumerevoli altri sensi simbolici.

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