Tommaso Landolfi, Le Labrene

Tommaso Landolfi, Le Labrene

Tommaso Landolfi, Le Labrene

Tommaso Landolfi, Le Labrene

Tommaso Landolfi, Le Labrene, I edizione 1974, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Tommaso Landolfi, Le labrene

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Tommaso Landolfi, Le labrene, I edizione gennaio 1974. Si tratta di racconti a metà strada tra realtà e surrealtà, dove gli effetti surreali sono come attenuati e diciamolo pure, guastati, da un’insistita misoginia di fondo che a tratti diventa violenta, nonché da varie inverosimiglianze che, purtroppo, inficiano la buona riuscita dell’opera. Il racconto che dà il titolo alla raccolta è sicuramente il più riuscito anche se il finale è intuibile a meno di metà racconto e forse sarebbe stato meglio mantenere una maggiore cripticità fino alla soluzione definitiva del testo e al suo scioglimento in un dramma personale. Questo primo racconto tuttavia non pecca di inverosimiglianza e ha una certa dose di appeal creativo. I problemi veri iniziano col secondo racconto: Encarte, in cui abbiamo due gemelli, Graziano e Cristiano, uno buono, uno cattivo, ma talmente identici da risultare indistinguibili. Uno chiede all’altro di sostituirlo per soddisfare la moglie, poi per un lavoro d’ufficio e ancora per una truffa in cui ha bisogno di un alibi. Uno dei due, ovviamente il cattivo, dopo aver rubato ad una vecchia molto denaro, se la cava perché il fratello ha finto di essere lui facendosi notare in un locale pubblico. Al narratore non sfiora nemmeno l’anticamera del cervello il fatto che la polizia quando fa un’indagine su un sospettato, per di più convocato per un interrogatorio, debba sapere già dell’esistenza di un gemello, tant’è che bellamente alla fine l’incolpevole dell’unico parto, il gemello buono, sparisce in una gita in barca. Il gemello cattivo torna da solo e il cadavere del fratello viene restituito dai flutti e riconosciuto da due donne come proprio marito. La trama, è proprio il caso di dirlo, fa veramente acqua da tutte le parti, ma alla fine, in compenso, l’autore ci ammannisce una lezione filosofica di gran pregio che vuol dire tutto o nulla: “Nessuna di voi due è chi è. Ovvero (che torna al medesimo) tutti noi, col rimanente dell’umanità passata, presente e futura, siamo la stessa persona”.

Il terzo racconto: Perbellione, è invece decisamente infantile. Le donne sono tutte cattive, rabbiose e picchiano i mariti che, poverini, non riescono a ribellarsi alle loro prepotenze, allora ricorrono a Perbellione, il vendicatore degli oppressi, in pratica uno che viene pagato per picchiare a dovere le mogli, compito che ciascun marito non si sente di svolgere in prima persona. Il successo di Perbellione perdura fino a che non si ammoglia pure lui e viene picchiato dalla moglie, diventando uno schiavo della stessa, esattamente come gli altri mariti, perché un conto è picchiare le mogli degli altri, un altro la propria e Perbellione le prende di santa ragione. La storia, sciapissima, manca completamente di umorismo, perché il topos misogino che in Landolfi tradisce inequivocabilmente il suo rapporto di odio-amore con l’universo femminile, non viene elaborato in modo sufficientemente creativo. L’attacco del racconto è proprio brutto, misogino e razzista. Non sono seguace del politicamente corretto, tuttavia non si può dimenticare che il libro è stato scritto negli anni 70, non nel Medioevo e qui è il narratore che parla e dice la sua per introdurre il tema in modo fastidioso:

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Che cosa teme più che tutto una moglie? Essere picchiata da un marito senza scrupoli. Teme, nel senso che lei teme fisicamente; ma teme anche nel senso che le percosse sono il solo mezzo per ridurla alla ragione. Si ha un bel discorrere di dignità umana, la donna ha ciò in comune coi negri e coi cani…

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Le donne sono delle macchiette di rabbia, che addirittura schiumano per nulla, come scrive in Uxoricidio:

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Mia moglie (pace all’anima sua) era una donnetta estremamente rabbiosa; per un nonnulla schiumava, sbavava e menava le mani… dei suoi schiamazzi e gracchiamenti e minacce e sputi e tentati morsi… non cerco neppure di dare un’idea… diritti della moglie, diritti della femmina, diritti della sgualdrina, diritti della cagna randagia e della gatta rognosa!..

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In Uxoricidio una moglie legata e imbavagliata muore, dato che è malata di cuore, grazie agli insulti del marito, così nessuno potrà dire che sia stato un assassinio. A parte non riuscire a capire perché si debba anticipare subito il finale con quel “pace all’anima sua” tra parentesi, il lettore si avvede che c’è una toppa clamorosa: i segni dei lacci sui polsi con tutto il dimenarsi della donna per liberarsi, come potrebbero essere interpretati in un delitto perfetto? Ah, ma meravigliosamente Landolfi prevede l’obiezione dicendo che i lacci erano di soave velluto, come se esistessero lacci di velluto che non lasciano traccia. Il medico non trova ombra di lesione e niente da ridire. E il lettore insomma, sarebbe tenuto pure a credere a questa scempiaggine con la scusa del “realismo magico” che però non può e non deve giustificare  tutto. Con tutta la buona volontà, il racconto non regge e di fatto, nemmeno gli altri.

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