Riso, pianto, potere, carnevale, letteratura

Riso, pianto, potere, carnevale

Riso, pianto, potere, carnevale, letteratura

Riso, pianto, potere, carnevale

Il mondo alla rovescia, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Riso, pianto, potere, carnevale, letteratura

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Che il riso e il pianto siano due lati della stessa medaglia è facilmente intuibile a chiunque si accinga a scrivere due righe qualsiasi, buone o cattive che siano. Lo scrivente (usare il termine scrittore sarebbe troppo celebrativo), osserva suo malgrado istintivamente la vita, vi si sofferma, non può fare a meno di comprendere che spesso tra elementi “ufficialmente” giudicati opposti o antitetici, esiste un dialogo un tempo esplicito e poi divenuto sotterraneo a causa di una separazione convenzionale del tutto arbitraria e confacente agli interessi dell’ufficialità.
Che la sfera del comico e del beffardo sia inevitabilmente legata con quella del tragico, non è concetto arduo da capire.
La storia conferma questa chiamiamola così “intuizione” naturale di ogni scrivente e di ogni buon osservatore.
Durante la cerimonia del trionfo, i Romani celebravano il vincitore e nello stesso tempo ridevano di lui. Durante i funerali accadeva la stessa cosa con la celebrazione del defunto che veniva anche deriso per scongiurare il pericolo di passare con lui oltre la soglia, per allontanare lo stuporoso senso di vuoto causato dal lutto.
L’uomo è per istinto portato a miscelare riso e pianto perché il tragico della vita ha sempre nella sua evidenza, un lato comico che è poi la vita stessa che non si rassegna a morire nella sola tragedia di fatto, inaccettabile e inesistente da sola.
È soltanto con l’ufficializzazione statale del sentimento primitivo, con la sua canalizzazione ed etichettatura lecito-illecito, conveniente-sconveniente, si fa-non si fa, che il riso è diventato “altro” dal consentito, è improvvisamente scivolato per legge dentro un barattolo con su scritto proibito nel tempo ordinario ma consentito in quello straordinario. Consentito soltanto perché inestirpabile dalla natura. La Chiesa e lo Stato hanno capito che non possono eliminare il riso, così ci hanno detto e ci dicono in quali occasioni bisogna ridere e in quali piangere, stabilendo dei paletti divisori, dividendo riso e pianto nati gemelli speculari, in due differenti strade separate. Quindi diventa disdicevole ridere durante un funerale, durante una premiazione, durante una celebrazione solenne del vincitore o dell’eroe. Chi mai riderebbe in faccia ad un “eroe” come facevano anticamente i Romani?
È così che si è creata una frattura culturale tra mondo ordinato, marcatamente ufficiale e mondo del riso, secondo mondo o “seconda vita”, come sostiene Michail Bachtin in L’Opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione Medioevale e Rinascimentale. Del resto anche Propp, Di Nola e De Martino ci hanno illuminato sul valore del riso come esorcismo contro la morte e la negatività nelle occasioni rituali tradizionali non statalizzate o sincretizzate dalla chiesa. Il riso è il movimento dell’anima che non si rassegna a morire col morto inane, è la fuga irriverente verso il movimento, contro quel giace attestato dalle foto tombali. Vi siete mai chiesti perché le foto di morti e di vivi hanno sempre un che di inquietante, di mortifero? Rievocano l’immobilità della morte. L’uomo muta per invecchiare e per morire. La sua foto di un secondo prima ritrae già qualcosa che non esiste più e non tornerà come la pioggia su un sentiero. L’attimo è perso, la foto è una piccola morte cristallizzata in immagine.
Mentre un tempo riso e pianto erano collegati e si può vedere chiaramente il residuo di tale collegamento in tradizioni funerarie in cui accanto al pianto si lanciavano motti di spirito e frizzi, come nei funerali di Lazzaro Boia, descritti da Ernesto de Martino in Morte e pianto rituale, dopo è intervenuto lo Stato che ha deciso di separare il riso dal pianto come il grano dalla pula. Il riso è diventato una sottocategoria. Il tragico è stato posizionato su un comodo piedistallo perché maggiormente funzionale all’uggia del potere, all’isteria nevrotica della religione statale. Tutto ciò che è solenne appartiene a Stato e Chiesa, tutto ciò che è beffardo, appartiene ad un mondo straordinario, quello del Carnevale, della stranezza, dell’eccesso, concesso soltanto in un certo periodo dell’anno, il periodo della follia. Così il riso comincia ad abbondare soltanto sulla bocca degli sciocchi mentre i savi non ridono mai. Lo dicono i proverbi. Si distingue natura (riso) da cultura (tragedia). La letteratura buffonesca è gradualmente diventata una categoria spesso svalutata a favore del solenne, del celebrativo, del tragico, perché appartenente a quel mondo di buffoni che si permette la licenza di mostrare un lato non edificante e pomposo della vita. Il carnevale si oppone all’austerità del potere religioso facendone parodia. Il riso diventa estraneo al potere, una sorta di contro-potere.
Questo in teoria. Le cose però si complicano non appena ci si addentri in campo letterario. Per esempio, lo scrittore che ride e che fa ridere carnevalescamente i suoi personaggi, usa il riso sempre in funzione di un potere senza il quale non potrebbe scrivere, non glielo farebbero fare. Se il suo riso fosse svincolato da qualsiasi interesse, verrebbe ignorato, perché è il potere che gestisce la visibilità di uno scrittore, non lo scrittore stesso, quindi il riso dello scrittore che conta è sempre un sottoriso, un riso sottomesso che finge di essere libero. Rabelais stesso non era libero. Usava il riso per sbeffeggiare i nemici dei suoi protettori, per metterli simbolicamente alla berlina.
La letteratura ha sempre avuto le catene ai piedi, quindi la separazione insegnataci da Bachtin tra riso e tragedia, funziona benissimo nella storia del folklore, quando si discute in ambito letterario, diventa invece sfuggente, poco precisa.
Il riso non è semplicemente la natura che si ribella alla cultura ufficiale, creando una dicotomia tra due mondi, ma può essere un miscuglio contaminato di natura e cultura, una sorta di ibrido che ha abbandonato la sua primitiva purezza a favore di un compromesso storico inevitabile con lo stesso potere che in teoria dovrebbe criticare. Senza questo compromesso uno scrittore è soltanto uno scrivente qualsiasi. Nessuno lo prenderà mai sul serio. Quando questo accadrà, significa che i tempi saranno veramente cambiati. Può darsi, anzi è molto probabile, che non accada mai perché sancire la liberazione del letterato dal potere, comporterebbe una riscrittura della stessa storia della letteratura, una rivisitazione del concetto di talento, molti idoli cadrebbero, molte certezze si sgretolerebbero, davvero una rivoluzione troppo grande perché il potere possa mai permettere che succeda.

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Rivista Il Destrutturalismo

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