De Angelis, decifrabilità, giunture sintattiche

De Angelis, decifrabilità, giunture sintattiche

De Angelis, decifrabilità, giunture sintattiche

De Angelis, decifrabilità, giunture sintattiche

Il fossile, credit Antiche Curiosità©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

De Angelis, decifrabilità, giunture sintattiche

 

Milo de Angelis a detta di saggisti e apologisti, è un nome che non può mancare nelle enciclopedie sulla storia della poesia italiana contemporanea perché sarebbe “un indiscutibile maestro”. Nel 1976 esordisce con Guanda, nella collana curata da Giovanni Raboni e con un libro dal titolo Somiglianze, seguito da altri, tutti pubblicati con la grossa editoria. Giovanni Raboni, Franco Loi, Delio Tessa, Piero Bigongiari, Mario Luzi, erano i suoi intellettuali di riferimento. De Angelis è il poeta delle associazioni improbabili senza mai “spiegazioni” plausibili, sfociante spesso in una oscurità che quelli che parlano bene definiscono ermetismo o cripticismo, per renderla importante. L’opera di De Angelis abolisce il ritmo. Tale abbandono è legittimo, non è necessario infatti che una poesia sia ritmica, ma deve quantomeno giustificarsi con un abbraccio della profondità che in questo caso è solo supposta, dato che la poetica del buon Milo, naviga tra oscurità e un noioso senso epidermico. In T.S. allude ad un tentato suicidio, associando immagini dolorose con immagini luminose, in un gioco di contrasti che però è reiterativo. Il tema del suicidio e dell’autodistruzione, è ripetuto in più liriche con effetti estetico-stilistici abbastanza discutibili e piuttosto prosaici. Il poeta rimane ancorato a un mondo di sensazioni fisiche e immagini concrete che sembrano scritte da un anatomopatologo dissezionante se stesso, ma non va oltre la contemplazione un po’ delirante del suo io allucinato. Il verso, malgrado l’impegno della critica, non si universalizza anche se l’autore si rivolge al lettore in un appello freddo e poco convincente:

T.S.
I
Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio…

 

Stilisticamente De Angelis pare ricercare un intreccio sinestetico elencando una serie di oggetti di una percezione acustica di fatto incompatibili con la suddetta sensorialità; a tutta prima chi legge fa dipendere dal futuro anteriore (avrà sentito) di seguito il morbido sonno, il vortice dolcissimo, l’albero, la scorza, l’alga; poi in maniera sintatticamente disconnessa viene introdotto un nuovo predicato verbale che apre a una percezione ottica che lascia in sospeso la sensorialità precedente (gli occhi non resistono e i flaconi non sono più minacciosi). Questa della disconnessione pare una cifra costante nello stile di De Angelis, ma il lettore non ne rimane affatto affabulato, stante la cripticità del contenuto che si assomma alla scarsissima decifrabilità delle giunture sintattiche.
Di fatto però la scrittura è così asettica che il lettore non se ne sente coinvolto. Lo stile non si abbandona a nessuna arditezza, il verso libero è una prosa che pretende significanza, ma si risolve in immagini piuttosto piatte: l’ambulanza, gli infermieri, il disastro del respiro, il davanzale che rimandano all’ospedale, per poi arrivare alla vigna, al pozzo, alla pietra levigata e a una sorta di regressio ad uterum: “il figlio ritorna nella fecondazione” che dovrebbe rimandare all’autodistruzione, ma è immagine abusatissima, espressa con versi sciolti che sono prosa che va a capo:

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mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera

.

L’abbinamento poi delle immagini marine con il letto d’ospedale che nelle intenzioni dell’autore dovrebbe sollevare una dicotomia tra disperazione e gioia, non ha un filo logico o illogico da cui scaturisca un senso profondo, ma è teso sulla superficie di un delirio che si piega su se stesso, carico di immagini che addensano la prosa ma non spiccano il volo. In A Piero trionfa il cripticismo. Si passa da una misurazione degli sbagli commessi non si sa da chi, a una mansuetudine opprimente e di là a esplosioni di velocità tra delimitazioni territoriali ben distinte, al putridume e di colpo si va alle spalle di una comunità religiosa e a un’entità corporale capace di sconvolgere una spiritualità dimezzata; a fagiolo capita proprio il nome di una inimmaginabile (fino a quel momento) vittima, Deliriana, che diviene oggetto di supplica, affinché essa rimanga in vita come quando è il momento del suo appellativo (quale sarebbe questo momento temporale non è dato intuirlo) e ci si augura che ciò avvenga prima che un indicatore di traffico determini in noi disattenzione, prima della presa d’atto di un tedio per la separazione… come siano consequenziali tra loro questi flash da overdose di dietilamide dell’acido lisergico a noi rimane ignoto anche dopo un tentativo di parafrasi del pezzo:

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a Piero

Così ritornavano
gli errori penosi perché piccoli
ed era vero: moriva gente
che non è mai stata difesa e talvolta
anche la mitezza è un’ oppressione
(e intanto, tutte queste corse
in mezzo al finito, le decomposizioni. )
Ma era lì, proprio dietro la parrocchia
e un corpo può squassare
mezza metafisica: la sua spallina forse
è già un seno che si apre
e chiamarla Deliriana sii esistente
come nell’ ora del tuo nome e dell’istante
prima dei semafori che ci distraggono
avvenga una gioia, prima di questa coscienza
infelice per distacco, ridammi l’essere vicino
prima, prima…

.

Questo martellamento della congiunzione temporale cui sembra sottesa un’ansia che scaturisce dal terrore di un ritardo ultimativo ed irreparabile, rimane un afflato indistinto ed oscuro, poiché il lettore non riesce a individuare che cosa angosci l’autore: che interconnessione ci vuole comunicare egli tra una gioia attesa ed un semaforo che ci svia da quell’aspettativa? La assenza di punteggiatura rende ancora più nebbioso il messaggio: Deliriana dovrebbe essere invocata affinché rimanga in vita, o perché non si allontani dal protagonista? Qual è la valenza di quel “sii esistente”? Questo più che ermetismo ci pare un parlare da oracolo impenetrabile. Ed è proprio la penna scabra del poeta che acuisce la incomprensibilità del messaggio.
Del resto come scrive lo stesso De Angelis “nessuno può attraversarsi da solo”, è necessario che lo facciano gli altri. La critica che da anni lo elogia, è riuscita perfino ad attraversare quello che non c’è e probabilmente non c’è stato mai.

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