Il poeta uccide la poesia e il poeta

Il poeta uccide la poesia

Il poeta uccide la poesia e il poeta

Il poeta uccide la poesia

Una questione di ceto, drawing from notebook by Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Il poeta uccide la poesia

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La poesia nasce originariamente dall’esigenza di offrire un testo alla musica. Prima che la lettura diventasse un fatto privato attraverso il libro stampato, la tradizione orale tramandava musica e parole. Le ballate contadine, i trovatori, gli aedi e i rapsodi ne fanno testimonianza inequivocabile.
Tra musica e poesia esisteva interdipendenza. Oggi la relazione non è necessariamente così forte. Dato che la poesia si legge (anche se sempre meno), sembra non essere più tenuta a rimanere ritmica e musicale. Si abolisce, talvolta felicemente, talvolta no, il ritmo, a favore di un significato che trovi in se stesso e non nella musicalità, un suo senso. La poesia è cambiata e forse sta morendo. Ma ciò non è dovuto tanto a scelte stilistiche di distacco dalla madre musica, quanto alle odierne scelte editoriali e alla collocazione della poesia sotto una teca di vetro. La si scrive poi la si ripone come una reliquia sotto una protezione semitrasparente che lascia vedere tutto e niente. Mostra i versi che però non si possono commentare perché la poesia sarebbe sacra, apparterrebbe a una sfera alta, sarebbe sublime, e via dicendo, in un crescendo di fanfaluche e stupidaggini. Le cose sacre non si discutono. Chi si permette di farlo è il lupo cattivo, quello che si mangia le favole a favore di una realtà in cui tutti si nascondono sotto le parrucche del buon senso. Si scrive per l’Olimpo. Molti versificatori, chiamarli poeti sarebbe eccessivo, si sentono creature superiori, anche se vivono ancora con la mamma a cinquant’anni. Questo genere di snobismo, molto diffuso tra gli scriventi sia noti che meno noti, nuoce al discorso poetico perché ne proclama l’abolizione e il deterioramento progressivo. Intorno alla poesia non si discute più e l’indiscutibilità aumenta man mano che ci si trova di fronte a scrittori noti. Quelli proprio non si possono toccare, sono mostri sacri. Il testo letterario e poetico diventa un tabù, il nome una garanzia, l’editore il marchio di una fabbrica che ostenta sicure certezze.

Siccome di certo a questo mondo non vi è nulla, possiamo invece riconsiderare le cose da un punto di vista diverso.

Noi non riusciamo a vedere il colore di una musica, possiamo soltanto avvertire sensazioni visive con l’ascolto, quindi siamo portati a pensare che il colore di un brano musicale, sia una astrazione metafisica della nostra mente. Ora poniamo il caso che invece mentre si suona un brano musicale, ci possa essere tra gli uditori un uomo che abbia sviluppato una capacità visiva non astratta ma concreta rispetto alla musica. Poniamo il caso surreale che quest’uomo dica di vedere effettivamente di che colore sia ciascuna nota. Quest’uomo dice di essere capace di vedere le note spandere colore nell’aria. Tutti noi diremmo che è un folle perché siamo incapaci di vedere il colore della musica. I nostri sensi non hanno questa capacità. Ma possiamo affermare sulla base della fallacia dei nostri sensi che la musica non ha veramente nessun colore? Possiamo dirlo con assoluta certezza? C’è chi sostiene di sì, dice che se la musica avesse realmente un colore specifico, emanato per esempio durante l’esecuzione di un brano musicale, noi tutti vedremmo questo colore spandersi nella stanza dove vibrano le note, ma di fatto non vediamo nulla, possiamo soltanto immaginare. Il colore della musica dunque convenzionalmente non esiste. Ma quell’uomo che lo vede? Viene etichettato come folle. Eppure sono proprio i folli, gli anticipatori, quelli che possono fare la differenza e dare al mondo nuove possibilità. Passiamo oltre. Anche un verme cieco non ha visto mai la luce. Sulla base di questo può tale animale affermare che non esiste la luce? Forse la immagina o forse no, di fatto non lo sappiamo. Se il verme cieco dicesse che la luce non esiste sulla base della propria esperienza personale, mentirebbe senza saperlo. Facciamo finta che i vermi ciechi abbiano una commissione scientifica di vermoscienziati. Se questi affermassero sulla base di prove empiriche che la luce non esiste e lo Stato ripetesse i risultati delle loro scoperte, cosa accadrebbe? La luce non esiste sarebbe la verità ufficiale nel paese dei vermi ciechi. Chiunque poi osi contestare questo dogma, questa verità convenzionale, sarà considerato un visionario, un malato di mente. Se applichiamo il ragionamento dei vermi ciechi o del colore della musica alla poesia sotto teca, troveremmo una serie di verità dogmatiche e rivelate che osannano la gloria di certi poeti diventati col tempo icone sotto vetro. L’icona non si discute, esattamente come la teoria dell’inesistenza della luce per un verme cieco o dell’inesistenza del colore della musica per uomini che non possono vederlo per la limitatezza dei loro sensi. Così la poesia teca si trova a guardare il mondo da un micro universo privilegiato che gli garantisce l’immunità totale. Si va sul sicuro, ci si protegge. Ma il sicuro esiste? È lecito domandarsi se si sia credibili nel voler evitare le apologie gratuite, partendo dal testo e rompendo la teca di vetro per leggere veramente? Sembra di no. La poesia in teca non si legge, si adora senza bisogno di leggerla. L’arroccamento dentro queste prospettive unilaterali nuoce molto alla vitalità della poesia, esattamente come la negazione dell’esistenza della luce nuoce alla scienza. Il fatto che non si possa discutere sulla poesia diventata dogma, favorisce l’allontanamento di una grossa fetta di lettori che non leggeranno più perché penseranno che la poesia non sia di questa terra ma appartenga al dogma. La religione della poesia non impone loro di leggere ma di ripetere i nomi degli autori le cui opere sono sotto teca. Questo culto sacro di vecchi ciarpami si risolve in un solo risultato, il disgusto per la poesia, percepita come slegata dal contesto della vita ordinaria, come corpo estraneo da bacheca delle desuete curiosità, collocata in un angolo a parte, su un piedistallo lontano anni luce dalla vita vera. Si è passati così dalla poesia come moto spontaneo della tradizione popolare, come accompagnamento della musica, dai canti popolari come espressione della gioia di vivere di un popolo semplice, alla poesia della casta, quella che non si tocca perché i poeti sono poeti e tutti gli altri sono tutti gli altri, cioè zero. Il poeta si separa dal resto del mondo, il poeta distrugge così la poesia, la uccide lentamente ma inesorabilmente. Il poeta uccide se stesso.

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Comment (1)

  1. Claudio

    In realtà questo articolo è fin troppo complesso per descrivere la maggior parte delle poesie che vanno per la maggiore oggi, quelle che hanno migliaia di mi piace sui social, infatti, messe tutte assieme hanno meno varietà di parole di questo articolo. Sono poesie, oddio, chiamarle così fa persino ridere… Sono pensierini banali, semplici e scritti con un linguaggio terra terra, per quelli che conoscono un massimo di cento parole e non ne vogliono sapere altre. Questo riguarda la stragrande maggioranza di poesie da migliaia di “mi piace”. Le poesie belle sono davvero poche rispetto a tutto il resto del nulla.

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