Il più grande artista del reame, la fame©

Il più grande artista del reame, la fame©

Di Mary Blindflowers©

L’arte, credit Mary Blindflowers©

 

Arte è produzione di “un oggetto culturale” secondo varie tecniche che spaziano dalla pittura, scultura e architettura, alla musica e poesia, etc. Un modo di comunicare creatività e talento attraverso colori, parole, suoni, pietra, metallo, carta, cervello e idee.

Artista”, parola oggi piuttosto abusata. Sempre più numerosi sono i profili fb che accanto al nome scrivono “poeta”, “scrittore”, “pittore”, “scultore”… Tutti artisti. Eppure raramente si assiste all’esposizione di talenti creativi… Troppo spesso si dimentica che essere “artisti” non è soltanto una posa da esteti post-moderni su una bacheca del sorriso e della porchetta arrosto, ma una condizione interiore. E non mi riferisco di certo a quanti si propongono con poesie che banalizzano il banale, cuori che fanno rima con fiori che la fanno a loro volta con amori, pretendendo positive recensioni impossibili, sulla base del fatto che ciò che hanno scritto “scaturisce dalla loro anima”.
A volte più che dall’anima sembra scaturito dal sempiterno pozzo dei luoghi comuni incollati tra loro alla rinfusa, operazione tanto cara agli scopiazzatori indefessi della poesia ottocentesca. Individui pseudo-romantici e per lo più privi di qualsivoglia talento, che ancora scrivono “augelletto” al posto di “uccello” e latineggiano coi “meco” e con gli “orum” scopiazzati da antologie di quarta categoria. Poi suggellano le loro poesiole con casti baci da educanda e fremiti alla Carolina Invernizio, già detestabile perfino agli occhi dei suoi contemporanei.

Occorre inventarsi uno stile, un personale modo di esprimere visioni originali. I vecchi tromboni abbarbicati come neri mitili di morte alle coste della poesia vetusta, detestano in genere l’onomatopeico neologismo, le evoluzioni letterarie e non, le cesure e i tagli alle regole, i romanzi costruiti secondo regole di carte inconsuete e non abusate. I tradizionalisti tuonano di figure retoriche, di bello stile, endecassillabo perfetto, lirismi comatosi per lettori che amano il libro uso sonnifero e bollano come impublicabile qualsiasi opera non sia inquadrata nella loro visione dell’arte e della letteratura.

D’altra parte devo dire che raramente capita di incontrare veri innovatori.
La maggior parte di coloro che definiscono il loro lavoro “sperimentale”, non si inventano niente che non sia stato fatto, detto, scolpito, scritto, recitato. Non fanno altro che parafrasare il tristemente famoso déjà-vu e questo non solo in Italia. 

Il Tate Modern si erge maestoso al centro di Londra, è possibile visitarlo gratuitamente. Dal 2007 espone un “mirror on canvas”, un’opera senza titolo di Michael Baldwin, uno dei membri dell’Art & Language Group, molto attivo negli anni 70, come simbolo concreto e tangibile della morte dell’arte sostituita dall’intellettualismo. Torniamo al nostro “mirror”. In pratica l’artista è entrato a suo tempo in uno shop, ha comprato uno specchio e lo ha appeso alla parete, scrivendoci sotto due righe di filosofia spiccia da bancarella. Il dipinto viene sostituito da uno specchio, così che lo spettatore guardi se stesso come opera d’arte. Interessante? Ma per chi? E per cosa?

Forse non sono sufficientemente raffinata per avere lo stomaco di definire uno specchio qualsiasi, siappur d’autore, appeso ad un muro qualsiasi, siappur del Tate, “arte”.

Uno specchio può comprarlo chiunque e ricamarci sopra motti di banali definizioni, purché si abbiano le amicizie giuste e i canali che contano. La concettualizzazione intellettualoide dell’arte dà la misura dell’assenza della stessa, del suo decadimento, in un vuoto che non graffia e in cui non c’è niente che possa stupire occhio e mente. Così accanto a quel genio surrealista simbolico di Salvador Dalì, capita, forse un po’ per politica, un po’ per bizzarria umana, un Baldwin che ci fa specchiare e ci dice che chiunque può essere “artista”.

E forse non ha nemmeno tutti i torti, se in Italia i profeti dei lucchetti fanno gli scrittori. Tutti, tutti artisti, se le soubrette da sotto-scrivania sono poetesse, e se i raccomandati di partito fanno gli editor e pubblicano a loro volta poesie che consistono soltanto nell’andare a capo… tutti, ma davvero tutti sono artisti con la a più o meno minuscola e il talento nascosto nelle pieghe del non essere.

Specchio, specchio delle mie brame, a questo punto dimmi, dimmi chi è il più grande artista del reame?

E lo specchio si agita leggermente e risponde, con voce ferma:

La fame”.

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