La gazosa di Pirandello

La gazosa di Pirandello

La gazosa di Pirandello

Di Pierfranco Bruni©

 

Foto Mary Blindflowers©

 

Nella vita si corre il rischio di “vedersi vivere” e di non sapere andare oltre. Perché andare oltre significa affrontare sempre lo specchio. Lo specchio non crea mai il doppio. Crea il diverso. O meglio crea l’estraneo. Luigi Pirandello non ha mai dissimulato la sua esistenza. Il suo esistere è stato un costante rappresentarsi. Come se la vita fosse stata un teatro e il teatro ben calato nella circolarità del suo esistere. La sua confessione, nella verità vera e non fittizia, è stata quella di accettare la metafora del cerchio. Forse anche per questo la discussione sul relativismo è una finzione nella contraddizione. Ha dimostrato che l’uomo inquieto può viversi nel relativismo ma che la sua poetica non è relativista, pur dimostrando che l’incertezza, la provvisorietà, la precarietà della vita vengono ad avere caratteri precisi, visioni, appunto, dal concetto del relativismo. Ha voluto superare il relativismo con la forma. Ma la forma è ciò che si è.

Come in una attenta riflessione che si legge in L’umorismo del 1908: “… io mi sento come tenuto tra due: vorrei ridere, rido, ma il riso mi è ostacolato da qualcosa che spira dalla rappresentazione stessa”. Qui il personaggio diventa il problematico e non il relativo: ”…si fa presto a volerci in un modo o in un altro; tutto sta poi se possiamo essere quali ci vogliamo”. Questa è “la tragedia di un personaggio”. Perché come si legge in I pensionati della memoria: “La realtà non è mai per sé”. In quanto non può esistere “alcuna realtà se non quella che ci diamo noi…” (Così in La trappola).

Il punto nodale  da sciogliere resta il relativo legato alla forma. Questo è il caos, ovvero il Kaos. O meglio il “caso” e ancora di più la confusione dei personaggi che non si armonizzano in Pirandello. Ma egli è lo scrittore della disarmonizzazione. Ogni suo percorso non ha armonia perché ha l’esistere della solitudine oltre l’illusione. Si pensi ai primi romanzi: I vecchi e i giovani del 1909 e addirittura a L’esclusa del 1893 ed edito nel 1901. In fondo in quel suo romanzo che doveva restare come riferimento di un passaggio generazionale si ascolta: “…si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso si scopre come una nostra illusione, desiderandoci…” (siamo vecchi o giovani?).  il senso della provvisorietà è evidente e diventa un vivere illudendosi se come il Mattia Pascal non si riesce ad essere “spettatore estraneo” o “forestiero alla vita”.

Allora Pirandello, tra uomo e scrittore, riuscirà a far capire quel “…io non potevo vedermi vivere…”? siamo così a Uno, nessuno e centomila del 1925: “’Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo, che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no’, E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io così come gli altri lo vedevano e conoscevano. Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà”. Il caos è la rottura tra il destino dell’uomo e l’uomo che vive la profezia. Pirandello è molto attaccato al caso? Al Kaos? Ma lo scrittore è uno scrittore del destino. Degli inquieti destini tragici che vivono senza alcun rimedio, o scampo o reticenza, la “propria solitudine”.

Ciò lo si vive profondamente nel teatro. Il teatro della grecità profonda, arcana, del gorgo. Si è anche alla ricerca di un autore, essendo personaggi nella vita che diventa teatro sommerso e immenso. Chi nasce personaggio diventa indimenticabile. Infatti i Sei personaggi in cerca d’autore del 1921 hanno il tratto e il dettaglio della indistruttibilità che supera il caso e si fa destino. La vita cambia perché resta sempre legata al tempo e la forma no perché è parte integrante di un immaginario. Il suo essere cerchio è il suo essere anche labirinto. Ma non è caos, anche se spesso viene metaforizzato. Il suo essere e sentirsi estraneo nel Kaos si dissolve nel momento in cui si prende atto che la sua teatralità è non nella vita, ma è la vita. Le sue radici sono il tutto.

Girgenti è il caos che si trasforma nel labirinto. Perché dalla solitudine dell’estraneo si scava in quel “me”, ovvero l’estraneo che era nella mia anima. Quell’estraneo ha assorbito il senso del destino. L’estraneo cammina nel deserto e il deserto non ha bisogno del caos, ma della metafisica del luogo labirintico che è il cerchio. Non smetto di ascoltarlo in questi suggerimenti: “L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa. Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? E’ forse questa forma la cosa stessa? Sì, tanto per me, quanto per voi; ma non così per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo. Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà  per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto”( appunto: Uno, nessuno e centomila).

Costruendomi! Non è forse l’immaginario che prende il sopravvento? I suoi personaggi comunque sono sempre chiamati a compiti salvifici. Il suo essere volontà di espressione ha dato una capacità vichiana al percorso onirico. Proprio lungo questo tragitto il relativo viene completamente superato e il dramma di vedersi vivere è il dramma di una potente consapevolezza in quell’essere nessuno per interpretare le esistenze di tutto il suo tempo. Pirandello portava negli occhi la sua terra, la sua parlata, la sua grammatica. La grammatica di un errante in cui l’inquietudine non ha bisogno del caos perché è stato indossato come una maschera. Nuda. Ma una maschera.

Alla fine è come se vedessi lo sguardo pungente di Pirandello che ascolta il vento giungere dal mare di Sicilia, della Sicilia greca ed araba, mentre gusta la sua consueta gassosa pensando a tutti i suoi personaggi che hanno vissuta la scena rappresentando le vite.

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Manifesto Destrutturalista contro comune buonsenso

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