Roth, fine giustifica mezzi

Roth, fine giustifica mezzi

Roth, fine giustifica mezzi

Roth, fine giustifica mezzi

Parassitismo, credit Mary Blindflowers©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Roth, fine giustifica mezzi

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Jacques Berlinerblau, pubblica il libro “The Philip Roth We Don’t Know: Sex, Race and Autobiography”, University of Virginia Press, in cui ci dice che, esaminando la corrispondenza privata di Roth, è emersa un’immagine tutt’altro che edificante dello scrittore che ha raggiunto e mantenuto il successo e la notorietà, barando, in un gioco di favori tra amici, critici, aiuti, collusioni, sotterfugi. Si spezza così la biografia ufficiale simile all’agiografia di un santo.
Ma veramente c’è qualcuno al mondo che pensa che si possa raggiungere il successo editoriale di Roth, senza la logica perversa delle conoscenze e dello scambio di favori? Veramente c’è davvero ancora qualcuno nel mondo che crede alla biografie ufficiali?
L’editoria è un grosso castello di carte false, alcune delle quali cadono dopo la morte degli scrittori più famosi.
Ma davvero pensavate che Roth sia diventato famoso per il solo talento? Nessuno al mondo diventa famoso senza denaro, mezzi, conoscenze e sponsor. Su questo possiamo mettere la mano sul fuoco. Il libro di Berlinerblau è soltanto la prova del marciume.
Gli articolisti italiani commentano secondo logiche spesso aberranti, secondo l’etica del fine che giustificherebbe sempre i mezzi. Del resto pure Calvino non favoriva i suoi amici nei premi letterari? E se non fosse stato per Bertolucci, Pasolini, sarebbe oggi Pasolini? E la Valduga senza Raboni? Non fanno forse così tutti? Che male c’è nella raccomandazione, nella spinta, nel nepotismo, nell’esborso di denari per stare nelle vetrine delle librerie vita natural durante, nel pagare i critici, nel diventarne amanti? Ma nessun male, commentano alcuni, convintissimi di ciò che affermano.
Certo, diciamo noi, che male c’è se chi ha talento e non ha mezzi per corrompere e per conoscere, verrà sempre e soltanto ignorato? Ma sì, che ci importa se ormai la letteratura è in mano alla sola casta corruttrice e corrotta? Che fa? Tanto si sa che il mondo va così.
Dobbiamo considerare l’opera e non la biografia, tuonano altri, altrimenti si rischia di fare gossip. Viene dunque catalogato nella sezione pettegolezzo, lo scavo sui metodi non proprio leciti e moralmente corretti, attraverso i quali, chi ha successo, ha fatto e conservato il medesimo.
Ma se Roth fosse stato povero, avrebbe avuto la stessa affermazione?
Ma certo che no! Che razza di domande!
Ma non chiamiamo tutto questo discriminazione, chiamiamola ipocritamente auto-promozione, signori e signore.
C’è chi afferma addirittura che dopo aver saputo quanto ha giocato sporco Roth, lo ammiri ancora di più:

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Che sia un figlio di…, un mestatore di fango, un maneggione, uno che gioca sporco, che mira basso – esigenze prevedibili dai tratti del viso e dal rango della sua opera, peraltro – non fa che rendermi più simpatico Philip Roth. Lo scrittore, se tale è, non può che essere il colpevole per antonomasia, prono a tutte le lordure – realizzate o immaginate cosa cambia? –, pieno della scaltrezza che richiede la vita. Agile nell’alterare il candore nell’orrore, nello scorgere lo schifo sull’altare dell’innocente, la demenza del male nel puro, lo scrittore non ha casa nella castità, è il pupillo del caso, crede a ogni prodigio ed evoca ogni possibile porcata; è passabile di tutti i fraintendimenti e le mistificazioni, è un mistico della contraddizione. Bene: Roth si è autopromosso, è stato uno scorretto dissimulatore, si è dannato per vincere premi e restare sull’onda del successo… beh, cos’altro dovrebbe fare uno scrittore? Posto che ciascuno ha il proprio physique, la propria indole al presente, la propria prestanza polemica – il deserto vale il palazzo; il sapiente vale il criminale – è giusto che uno scrittore, scalmanato, lavori per eccitare la propria opera, per difenderla e brandirla, come una spada. Conta, infine, soltanto lei, l’opera, che sbugiarda l’ingordo, che va per annientarsi. Grottesco è chi trama per avere un premio e lo vince con un libro infelice, inferiore, infimo; dacché conta, infine, soltanto l’opera. Eh, beh, Philip Roth ha costruito un’opera ragguardevole, potente, che non guarda in faccia nessuno, che ti piglia a ceffoni. Quindi, tutto è lecito: ogni vigliaccata, ogni ruberia, ogni disonestà. (Dalya Alberge in Pangea, Rivista di cultura e idee).

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Gianrico Carofiglio ne “La regola dell’equilibrio” fa dire al magistrato corrotto protagonista del romanzo pressappoco le stesse parole: “Perché non debbo prendermi la mia parte di ricompensa illecita se sono io a preparare le arringhe e le requisitorie a laureati in Giurisprudenza che fanno gli avvocati e non sono capaci di farlo, talché vengono a chiedere il mio aiuto?”
La società yankee ha sposato della filosofia cinica la parte più deteriore, lo sprezzo e l’indifferenza più beffarda per l’onestà, involvendosi nel sarcasmo e nella sfiducia. Non c’è più l’anelito originario alla vita indifferente ai bisogni e alle passioni. Il commento di Dalya Alberge è uno spaccato fedelissimo dell’opportunismo più aberrante e gravido di disprezzo per coloro che aspirano ancora a un’etica interiore che non susciti ribrezzo per se stessi. E la malapianta attecchisce da noi: quanti pensatori moderni ad esempio asseriscono che non v’è nulla di male se una ragazza sfrutta la propria avvenenza per fare carriera? Con dispregio quasi inavvertito per l’impar condicio che deve sostenere nella scalata al successo una collega non bella e non disponibile? E chi si lamenta di questa disparità per loro è soltanto un invidioso e uno sfigato, uno che calvinisticamente non sa gestire i talenti che Dio Padre ha donato.

Insomma, abbiamo capito bene?
Tramare disonestamente per affermarsi, è lecito, perché talento e scrittura non servono a nulla senza intrighi e conoscenze.
Benvenuti nel magico mondo dell’editoria.

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