Una rivoluzione non riuscita

Una rivoluzione non riuscita

Una rivoluzione non riuscita

Una rivoluzione non riuscita

Una rivoluzione non riuscita, tecnica mista su carta, Mary Blindflowers©

 

Paolo Durando©

Una rivoluzione non riuscita

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Nel corso degli anni 90 talvolta ricorreva nelle conversazioni mondane degli italiani, sui giornali che contavano, la considerazione che l’unica rivoluzione riuscita della contemporaneità fosse stata quella delle donne. Era un sentire in linea con l’ultima epoca di oggettivo benessere economico, quando ancora nessuno dubitava che fossimo “primo mondo” e il senso del futuro non era stato ancora eroso. Col XXI secolo le cose sarebbero cambiate e anche l’ottimismo sull’esito della svolta femminile sarebbe apparso, sempre più, come un abbaglio trascorso. Anno dopo anno si è passati a una declinazione a senso unico, vittimizzante, della rappresentazione della donna, con l’affermazione definitiva, tra l’altro, del termine “femminicidio”, che indica l’unica tipologia di assassinio non in calo nelle statistiche.
Il 2023 è stato un anno cruciale in questo senso, con la morte per mano dell’ex-fidanzato di Giulia Cecchettin, che ha costituito un po’ uno spartiacque. Quella ragazza dal viso vivace, quella famiglia dignitosa e consapevole, con precise caratteristiche sociali e culturali di ceto medio “riflessivo”, hanno favorito il rispecchiamento e la reazione intensa di molte persone. E ben venga, se può servire a una riflessione definitiva su dinamiche malate ancora troppo diffuse nel rapporto uomo-donna.
Nessuno qui intende negare la serietà del problema, né che essere donna abbia specificità di cui i maschi faticano ad essere consapevoli, non avendo finora mostrato di essere capaci di autocoscienza quanto le loro compagne.
Ripercorrendo le tappe di un’evoluzione che ha segnato il ‘900, è sempre inevitabile partire dal testo capitale, “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir (1949). È un saggio tutt’oggi illuminante che descrive ampiamente la condizione femminile nel tempo e nello spazio, in un paesaggio multiforme, come pluralità di alienazioni e magnificenze, tra coazioni a ripetere, narcisismi, ipercompensazioni e soprusi. Le donne vengono descritte come più flessibili, varie, affascinanti nell’espressività e nella percezione della quotidianità rispetto agli uomini, proprio per via dello scarto che le separa dal “neutro” universale. Eravamo ancora sulla scia del “donna si diventa”, intendendo negare l’essenzialismo di una “differenza” ab origine. Già pioniere come Sibilla Aleramo (“Una donna”, 1909) avevano rifiutato il destino segnato per votarsi all’emancipazione. Si era inaugurato un filone austero, dove l’impegno culturale e politico diveniva cifra di un’intera esistenza.
Simone de Beauvoir o, per dire, Rossana Rossanda, erano donne forti del loro status culturale, edotte dei poteri tremendi dell’affettività, del desiderio. Non erano certamente inclini a percepirsi come alterità inerte in un mondo al maschile. È una fase ancora individualista e, in senso lato, esistenzialista.
Dopo il 68, nel corso dei decenni, da questo filone emancipazionista si è passati a un femminismo che rimetteva al primo posto, piuttosto, la valorizzazione della “differenza” tra uomo e donna, stavolta tutta da ricostruire, da rifondare. Si trattava di negarsi all’emulazione dell’uomo, in nome della peculiarità femminile. Carla Lonzi, con “Sputiamo su Hegel” (1970) poneva le basi di tutto questo, ribellandosi al nesso donna-natura, donna – dimensione privata inerente la dialettica idealistica, e, parallelamente, sceglieva di non lavorare, di abbandonare il suo ruolo di critica d’arte, voltando le spalle a un mondo maschile a cui non intese più portare il suo contributo. L’arte stessa, e il mondo che le ruotava intorno, aveva finito col parerle una mistificazione, che metteva in ombra ciò che davvero contava, i rapporti tra persone, l’investimento emotivo, l’intelligenza e le risorse messe in campo nelle relazioni.
In seguito pensatrici come Adriana Cavarero, con “Nonostante Platone” (1990) o Luisa Muraro, con “L’ordine simbolico della madre” (1991), continuarono questo percorso di presa di distanza dal logos maschile fondativo della cultura occidentale, cercando una nuova genealogia nel riconoscersi in altre figure femminili del passato e del presente, e nella propria madre quale fonte di autorità e di trasmissione di un’eredità di saperi e di pratiche. Non importa, per Luisa Muraro, che la madre sia “buona” in senso stretto, può essere anche una madre detestata, ma da lì ogni donna dovrebbe partire, per collocarsi in una discendenza, trovando radici di storie e percorsi non prettamente maschili.
Il pensiero della differenza sessuale può considerarsi un contributo originale del femminismo italiano. Quando Luisa Muraro dichiarò euforicamente la morte del patriarcato, sapeva comunque che questo era avvenuto sul piano simbolico, non ancora su quello antropologico-culturale, in quanto era stato per la prima volta possibile, alla luce di una nuova consapevolezza, concepirne la fine. E che in ogni caso il post-patriarcato in cui ci si sarebbe avviati poteva essere, nelle sue azioni e reazioni difensive, ancora più minaccioso.
Il 2017 è stato l’anno del metoo, dall’hashtag diffusosi dopo le accuse rivolte al produttore cinematografico H. Weinstein da numerose attrici di Hollywood, e tutto ha assunto toni sempre più esasperati… (Continua su Destrutturalismo n. 7, luglio 2024).

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

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