Chi critica la critica?

Chi critica la critica?

Chi critica la critica?

Chi critica la critica?

Il visconte dimezzato, Utet, credit Antiche Curiosità©

 

Chi critica la critica?

Mary Blindflowers©

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Ecco un classico, Il visconte dimezzato di Calvino, l’ennesima ristampa, edizione 2006 dell’ormai defunta UTET, oh che bella veste editoriale, bello robusto, sovraccoperta grigia con impressioni a secco, nome dell’autore segnato finemente in rosso, buona carta, segnalibro in seta, apro il libro, copertina rigida, voilà. Prefazione di Guido Davico Bonino. Molti le prefazioni non le leggono nemmeno, ma io sì. Nella suindicata edizione sarebbe meglio saltarla per vari ordini di motivi, primo, è brutta, senza stile, si vede che è stata fatta tanto per fare, tratti di penna in più del solito critico saccente, nulla aggiungono in tema di critica del testo. È più un riassunto infatti, ma a far quello son buoni tutti. Secondo è autoreferenziale con quel fastidioso plurale che sa di essere finto, a meno che non sia maiestatis, e terzo anticipa troppo, guastando completamente al lettore che non ha mai letto il libro, il gusto della scoperta.
Il prefattore ci informa che l’opera esce nel 1952 come nono titolo della collana “Gettoni” diretta da Elio Vittorini per Einaudi, poi subito cita Mario Barenghi e Claudio Milanini, dunque passa a una confessione di Calvino ai lettori inglesi di Our Ancestors, nel 1980. In riferimento a Barenghi non si lascia sfuggire la lode: “consueta precisione”. Le informazioni che dà si trovano ovunque. Sono note introduttive. Ma poi si addentra nello specifico, usando un plurale che in teoria dovrebbe coinvolgere il lettore, ma nella pratica lo allontana: “proviamo a guardarlo un poco più da vicino… siamo…” Il lettore non si sente affatto coinvolto perché tutto il discorso che il critico fa è insulsamente citazionista, molto autoriferito. Le citazioni non sono funzionali a dare al lettore informazioni sull’opera ma a esaltare la critica stessa. Ci dice che Il visconte dimezzato, è scandito in dieci capitoli (genio!), trattasi di “romanzo breve, che nel mondo anglosassone si definisce novella, per distinguerla da novel, romanzo, e da short story, racconto”. E al popolo?
Perché ritiene necessario illuminare il lettore sulle definizioni, peraltro note, del mondo anglosassone? Non si sa. Così, giusto per scrivere due righette in più, non sapendo che fare. Subito dopo sente l’esigenza di citare Emilio Cecchi, “il critico collega”. A quanto pare ci tiene a farci sapere che è critico come lui, che non ha citato uno qualsiasi ma uno della casta, “un recensore finissimo”, aggiunge con sussiego. Cecchi avrebbe paragonato l’opera di Calvino alla pittura di Bosch e Bonino aggiunge ma sì, abbondiamo, anche a quella di Goya, poi però esclama, vabbé “lasciamo stare” i raffronti pittorici, godiamo del fascino nero delle immagini del testo. E inizia a riassumere bignanescamente tutta la trama. Una tristezza infinita si impadronisce allora del lettore: “che me la dici a fare la trama? Non posso scoprirla da me?” Ci racconta tutto, il buon prefattore, con ricchezza di particolari e ci infila in mezzo pure Max Weber che fa sempre un bell’effetto colto, per poi continuare per filo e per segno a descrivere tutto ciò che farà il protagonista Medardo. Grazie dello spoiler! Ho letto il libro alle elementari, non mi ricordavo perfettamente la trama, ma ora so tutto prima di leggere! Un bel risparmio di tempo! Tanto chi legge più i libri, n’est pas? Di critica letteraria nemmeno l’ombra. A che serve dunque questa prefazione? A nulla.
Forse allora c’è un motivo se le prefazioni vengono da molti sistematicamente saltate? Sì, perché molte sono scritte per noia e senza impegno alcuno, sostenute solo dal nome di chi le scrive che darebbe lustro alla pubblicazione. Tutto questa inedia contenutistica è un segno inequivocabile di una imperante e disdicevole sottocultura di casta che tronfia del suo nome, anziché incoraggiare la lettura con risorse intelligenti, accostamenti profondi, non fa che citare superficialmente la parrocchietta lodandola in una sorta di minuetto di ringraziamento tra pari. Ma al lettore, quello vero, tutti questi inutili salamelecchi e passetti di finta danza, che possono interessare? Un lettore robusto può farsi impressionare da simili astuzie?
A questo punto la domanda sorge spontanea. Non saranno proprio gli addetti ai lavori ad allontanare i lettori dal libro? Perché da molte prefazioni si intuisce la posa aristocratico-borghese di critici che anziché analizzare i significati del testo, le sue implicazioni simboliche, si abbandonano al vuoto laudativo fine a se stesso che nulla concede al lettore il quale, nonostante quel finto tentativo di coinvolgimento con quel “noi vediamo, noi leggiamo” che non esiste, si sente escluso. Ma in fin dei conti, potrebbe chiedersi un lettore, caro critico, la prefazione l’hai scritta per me, per spiegarmi meglio un testo che in fondo è anche abbastanza semplice, (non stiamo parlando di Joyce infatti) o per i tuoi compagni di merende?
Poi dicono che le case editrici falliscono, che non ci sono più lettori, che il livello medio dell’intelligenza si è abbassato, ma non si parla mai di quanto siano poco intelligenti i critici e i prefattori perché sono intoccabili e si possono permettere anche di fare spoiler.
Al fin della ripresa e senza offesa, chi critica la critica?

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

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