Dhalgren di Samuel Delany

Dhalgren di Samuel Delany

Dhalgren di Samuel Delany

Dhalgren di Samuel Delany

Dhalgren di Samuel Delany, particolare della cover, credit Paolo Durando©

 

Dhalgren di Samuel Delany

Paolo Durando©

.

Dhalgren è un romanzo di Samuel Delany, scrittore e critico letterario statunitense, oggi pienamente fruibile nella traduzione di Maurizio Nati nell’edizione Fanucci. Va detto che la copertina non invoglia affatto all’acquisto, con quella didascalia esplicativa: “un’isola di caos e d’anarchia” e quella citazione di Eco, tanto irrilevante quanto inappropriata. Il libro ha una mole notevole e per un po’ l’ho tenuto a ragionevole distanza, con un certo timore, prima di decidere di affrontarlo. Uscito nel 1975,  lo circonda una fama ambigua e promette una fantascienza sui generis, né troppo hard né tendente al fantasy. Alla fine ce l’ho fatta, spinto da un interesse per la controcultura di quegli anni che certo non è estraneo all’approccio fantascientifico, che del diverso, dell’utopico e distopico costituisce una declinazione fondamentale. Durante la lettura mi sono ritrovato a pensare più volte a “Il castello” di Kafka. Anche qui, in effetti, ci troviamo in un luogo incomprensibile, dove sostanzialmente non si viene a capo di nulla, dove è vano ogni tentativo di comprensione non frammentaria, non obliqua.
Il protagonista è Kid, il Ragazzo. Ha dimenticato il suo nome, non sa da dove viene. È di etnia vagamente indiano-americana, ha un piede perennemente scalzo e le mani grosse e rovinate. Una notte, dopo aver fatto sesso con una misteriosa orientale e aver trovato in una grotta una grossa catena di prismi, lenti e specchi con la quale si avvolge, si imbatte in alcune ragazze che gli fanno dono di un’arma da polso composta da lame affilate, l’Orchidea. Passando il testimone a Kid, stanno lasciando Bellona, una città medio-grande degli Stati Uniti, dove è successo, sembrerebbe, qualcosa di grosso, che ha sgretolato la vita quotidiana, i legami tra le persone, danneggiato le infrastrutture e reso superfluo il denaro, in una dissoluzione che non impedisce, tuttavia, a chi vi abita, di mangiare, bere, frequentare  locali. A Bellona, città di “disarmonie interne e di distorsioni retiniche”, possono comparire due lune, può sorgere e tramontare rapidamente un sole enorme o un lampo restare congelato nel cielo, tra nubi fosche e gravide. Il tempo stesso pare scorrere in modo soggettivo. Kid spesso crede che siano  passate poche ore mentre in realtà si tratta di giorni. L’unico quotidiano di Bellona, il Times, riporta sempre date diverse. Può essere il 1879 o i 1995. Ciò che è certo è che Bellona è un vero paradiso per hippy. Kid si unisce a un bivacco in un parco, conosce il gay Tak, che è il primo a chiamarlo Kid; essendo bisessuale, lo segue nel suo appartamento improvvisato, dove ha un rapporto con lui.  Si mette poi con Lanya,  femminista e solidale, spesso intenta a  suonare l’armonica. Da un quartiere all’altro della città scorrazzano i cosiddetti “Scorpioni”, che spadroneggiano, suscitando paura, invidia, emulazione. Ciascuno di loro è dotato della stessa catena prismatica che Kid aveva trovato nella grotta, nonché dell’Orchidea. Nella catena, tra l’altro, c’è un proiettore che, una volta azionato, fa assumere agli Scorpioni aspetti mostruosi e mitologici.
Kid finirà con l’essere coinvolto da loro, fino a farne parte e divenirne una sorta di leader. Lanya, invece, non apparirà mai tentata da quell’appartenenza, ma cercherà piuttosto di essere utile alla comunità, insegnando ai bambini.
Kid ha trovato un quaderno di appunti, che porterà sempre con sé, dove compare una lista di nomi, forse i precedenti proprietari, tra cui Wlliam Dhalgren. Da qui il titolo del romanzo. Kid vi scriverà tutto quello che gli accade e anche delle poesie che saranno pubblicate – con l’avallo di Ernest Newboy, poeta noto di passaggio a Bellona – da Catkins, il fondatore e direttore del Times, governatore occulto della città. In onore di questo primo (?) libro di Kid, costui organizza anche una grande festa in suo onore. Newboy, in realtà, non ha apprezzato particolarmente le poesie, ma è rimasto colpito dalla loro pertinenza. “Non che le poesie riguardino in qualche modo questa città… Bellona.  È Bellona, piuttosto, a fornire, almeno in quello che ricordo meglio, lo scenario che consente alle poesie… di prendere vita”. Più avanti sentenziaerà: “Tutti i buoni poeti tendono ad essere idealisti. Tendono anche a essere pigri, acrimoniosi e assetati di potere.”
E, di fatto, lungo il corso della vicenda si discute spesso di arte e poesia. Ne emerge una concezione della creatività che ne implica tanto la sua crucialità esistenziale, quanto la sua sostanziale inutilità, soprattutto nel costituirsi un’identità credibile. Lanya, per dire, dichiara che non vorrebbe mai essere un’artista e, se suona l’armonica e compone occasionalmente musica, questo non va ad alimentare la solidità di un “io” maschile, assertivo, sciovinista.
“Mi sono resa conto di qualcosa. Sull’arte. E sulla psichiatria. Entrambi sono sistemi che si autoperpetuano. Come la religione. ” Afferma Lanya. ” Tutte e tre promettono il senso di un valore e di un significato interiori, e consumano molto tempo a spiegarti la sofferenza che bisogna sopportare per raggiungerli. (…) Nel migliore dei casi ognuna cerca di racchiudere le altre due e definirle come sottogruppi”.
Tutti appaiono spontaneamente propensi alla promiscuità sessuale, sia etero che omosessuale.
Del resto, a una delle due lune viene dato il nome di George Harrison, un nero che di quella città è una specie di sex-symbol universale, che ammicca nudo da manifesti che vengono distribuiti anche da Amy, il reverendo della chiesa locale, in realtà una donna. Non si va tanto per il sottile anche riguardo l’età dei concupiti. La stessa coppia Kid-Lanya diviene un threesome, coinvolgendo il quindicenne Danny. Gli anni ’70 non si fermavano di fronte a nulla. Eravamo in epoca pre-aids, pre-politicamente corretto, pre-neobigottismo più o meno Incel e Cancel. Qualunque valutazione si possa dare di questo, la libertà di immaginazione e di azione poteva apparire assoluta, aprirsi a un futuro di anarchia coscientemente e voluttuosamente articolata.
La maggioranza degli abitanti di Bellona è di colore e lo scontro razziale permea il linguaggio, dove l’epiteto “negro” utilizzato ironicamente o con disprezzo non si sa fino a che punto simulato è frequente.
Significativa la rivendicazione del nero Fenster all’omosessuale Tak: “Essere finocchio non fa di te un nero”, allusione evidente alle dispute sulla rilevanza politica delle varie forme di marginalità. Solo chi è nero, ribadisce Fenster, può avere un’anima nera. L’omosessualità, invece, non sarebbe che “un passaporto per un’intera area della cultura e delle arti, in cui ti ritrovi semplicemente quando vai a finire nel letto di qualcuno”.
Poco a poco, l’impressione che ci sia stata una qualche deflagrazione diviene più netta. Non tanto dovuta a una bomba, a una guerra,  il che ci potrebbe pure stare. Si tratta soprattutto di una deflagrazione  semiotica, quella che per gli italiani è avvenuta intorno al ’68, prolungandosi fino al ’78 circa. Bellona è una città di fallout culturale e simbolico, in cui frame della vita precedente fluttuano in libera uscita, un po’ come nella sequenza finale di Zabriskie point di Antonioni.
In tutto questo si distingue, stoica, la famiglia Richard, che vive in un grande condominio parzialmente senza luce ed elettricità. Kid viene da loro assunto per aiutarli nel trasloco al piano di sopra in un appartamento abbandonato, migliore perché dotato di balcone. I Richards incarnano l’America wasp,  l’eredità degli anni ’50, l’archetipo dell’american way of life. Persistono imperterriti a comportarsi come se nulla fosse successo. La signora continua a cucinare per gli invitati alle sue cene, anche se, prevedibilmente, non si tratta di alta cucina. Le zuppe sono ottenute da una miscela di barattoli Champbell, il purè di patate è liofilizzato, ma i riti di una iperuranica quotidianità vengono salvaguardati. Il marito si reca ogni giorno al lavoro, anche se sospettiamo che potrebbe essere una finzione, essendosi lacerato il tessuto economico e produttivo della città. I due figli, pedissequamente un maschio e una femmina, recitano la parte dei bravi ragazzi americani con le loro paturnie e le loro vivacità. La figlia, in realtà, è stata violentata dell’idolo erotico collettivo  George e, in fondo, vorrebbe che la cosa si ripetesse. Intanto custodisce gelosamente uno dei suoi poster, cosa che il fratello, suo malgrado, scopre.
Le poesie di Kid interessano, naturalmente,  alla signora Richards, che vuole darsi una patina di mondanità culturale.

A Bellona capita anche un astronauta che ha partecipato a una missione sulla luna, Michael Kamp, che della sua esperienza fuori dalla Terra non sa riportare nulla, essendo stato perlopiù concentrato su se stesso, sulle singole azioni del suo corpo e pensieri più o meno gratuiti. Come dire, l’esperienza individuale è comunque inattingibile. Il suo contributo alla comprensione di Bellona, metaforicamente lunare quanto i suoi abitanti, è dunque modesto e lui stesso non sa bene quale possa essere il suo ruolo in tutta quella suggestiva quanto velleitaria sciattezza giovanile.
A tentare un’interpretazione impegnata della loro condizione è il reverendo Amy che, in un’ulteriore scena felliniana a casa di George, affollata e caotica, pronuncia un discorso che pochi seguono: “Dov’è questa città? Cancellata dal tempo! Dov’è costruita? Sull’orlo di verità e menzogna. Non del vero e del falso… Oh, no. No. Niente di così grandioso. Eccoci qui sprofondati nell’abisso di modeste fandonie, di innocenti fraintendimenti, di ingegnose speculazioni che si rivelano sbagliate e uccidono… Oh, c’è meno verità nell’universo di qualsiasi altro elemento. Sì, anche qui naufraghiamo nell’abbondanza del linguaggio, nella cenere fuggevole del desiderio.”
Questa facondia, che si prolunga mantenendo un registro alto, ha però  una funzione straniante. Sembra suggerire che a Bellona, in realtà, nulla andrebbe preso davvero sul serio e lasciarsi andare al pathos potrebbe essere un autoinganno da scrittori (visionari?).
Per tutto il romanzo continuiamo  a chiederci chi è davvero Kid. È un narratore palesemente inattendibile, che a volte si esprime in prima persona e che, nella parte finale del romanzo, quella più sperimentale, si disperde in più tempi e situazioni, in una frantumazione anche tipografica.
Questo coincide, nel susseguirsi di flussi di coscienza e false agnizioni,  e senza con questo  rivelare la conclusione (o le possibili conclusioni), con la deriva simbolica di Bellona e dei suoi abitanti.
Lo stile è certamente una sfida. La narrazione fluisce prevalentemente sotto forma di dialogo, in cui vengono riportati ogni gesto, espressione, interiezione dei personaggi, anche senza nessuna giustificazione narrativa. Prevalgono, quindi, la scena, come coincidenza della durata del tempo del discorso e del tempo della storia, e l’analisi. Il sommario, la sintesi non sono propriamente qualità di Delany. Il che può rendere la lettura oggettivamente pesante.
Si leggono cose come: “Stirò le labbra in modo da formare una specie di sacca che, con l’aiuto dell’aria, non veniva a contatto con i denti.”, oppure “Lei rifletté per un momento, succhiandosi il labbro inferiore, ” o “…incrociò le mani sulla parte bassa della giacca di cuoio, in modo che la parte alta sporgesse dal petto biondo.”
L’ossessione per i particolari può legittimamente irritare un lettore poco paziente che, forse altrettanto legittimamente, potrebbe decidere di mollare la presa, pur riconoscendovi forse in un tratto iper-realistico, ciò che con la new wave di quegli anni ha indubbi addentellati.
Vale la pena continuare a leggere se si assume di trovarsi alle prese con un libro-mondo, in linea con la ricerca sottintesa della letteratura statunitense del “grande romanzo americano”, stavolta in chiave para-fantascientifica, con un carattere di ambiziosa, lisergica totalità.
Chiudendo il libro ci si congeda, oltre che da un unicum della letteratura speculativa, da un’epoca peculiare della storia americana e occidentale, quella in cui alcuni avevano creduto nel sovvertimento di tutte le regole, nella ricerca inebriante e anche, spesso, sterile, di un’alternativa a una vita improntata alle identità tradizionali, di classe, di genere, di etnia.
È un mondo lontano, in questo 2022 in cui qualsiasi trasgressione, agli occhi di ogni boomer che si rispetti, appare come ripetizione, citazione, esasperazione, in cui ci sono molti meno giovani e non si riesce in alcun modo a immaginare un assetto diverso, se non un conflittuale post-consumismo e post-postmodernismo. Questo nei nostri paesi che continuiamo a definire “democratici”, unica alternativa a regimi grotteschi, di cui, certamente, approviamo la presunta, prima o poi inevitabile, agonia.
Forse davvero, in questo senso, c’è stata una “fine della storia”, come diceva nel 1990 Francis Fukuyama, che non implica, tuttavia, una stabilizzazione della pace e della prosperità, nell’irenica estinzione delle ideologie,  ma, al contrario, una recrudescenza di identitarismi fallimentari, di guerre e razzismi, nell’intreccio tra un presente immobile e un retaggio storico-biologico che ostacola, non biodegradabile, ogni progetto motivato di futuro.

.

DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

Post a comment