Il mondo si sbriciola

Il mondo si sbriciola

Il mondo si sbriciola

Il mondo si sbriciola

Centri e centrini, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Il mondo si sbriciola

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Il verde allegro dello sfacelo, i feticci della camorra per chi è destinato al successo e l’isolamento di chi è solo sulla terra, sprovvisto di santi come un re disperato, in mezzo ai lupi che digrignano i denti.
È la voce di Angelo Maria Ripellino, un poeta che amo molto, in Lo splendido violino verde, pubblicato da Einaudi negli anni 70, quando ancora la poesia non era solo innocuo pigolio di uccellini e nuvole rosa, ma critica e disamina di una società malata:

 

Guai a chi si costruisce il suo mondo da solo.
Devi associarti a una consorteria
di violinisti guerci, di furbi larifari,
di nani del Veronese, di aiuole militari,
di impiegati al catasto, di accòliti della Schickeria.
E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo,
le gighe del marciume inorpellato,
inchinarti dinanzi ai feticci della camorra,
come Abramo dinanzi al volere del cielo.
Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi,
guai a chi resta solo come un re disperato
fra neri ceffi di lupi digrignanti.

Da “Lo splendido violino verde”, Einaudi 1976”.

 

In un’epoca in cui lo spostamento di un accento simulava rivoluzioni di inaudita potenza da reucci di carta neo-avanguardista spesso di posa, in cui Adriano Spatola il poeta dell’odore dell’odore, denso e sopportabile vivace con tono alto e isterico dolce, tambureggiava allegramente il suo microfono sull’adipe della sua stessa pancia, per fare, a suo dire, poesia, gridando Aviation-Aviater sotto lo sguardo compiaciuto dei critici dal naso a ciabatta che li avevano fatti diventare poeti, c’era anche chi poteva dire che senza la consorteria un poeta non va davvero da nessuna parte.
Adesso non si può decisamente più fare, anche se sanno tutti che è così, non è più un segreto davvero per nessuno e anche chi nega, lo fa in decisa e ostinata malafede, perché fa parte di un circoletto su cui si è posata la mano di Dio. Non si sputa dunque sul piatto dove si mangia.
Ripellino (Palermo, 4 dicembre 1923 – Roma, 21 aprile 1978) non fu soltanto poeta ma anche saggista e critico teatrale quando ancora qualcosa si poteva dire. Oggi non più. La censura è diventata pressante. I comici non comicano, i poeti non poetano ma peteggiano di sentirsi più lontani di una stella e con accorati accenti pregano la loro amata: scrivimi. Un’originalità da far traboccare i fiumi sulle sedie condite di totale inanità.
Il mainstream oggi non vuole critiche nemmeno dal suo interno. Chi è dentro non può che parlare di argomenti innocui perché di base ci siamo totalmente involuti. Così mentre si sbandiera democrazia, si fa salire in alto chi fa apologia del nulla.
La poesia ne ha risentito, ne risente parecchio. Diventa atona, inutile, inconcludente ornamento espressivo. Rimpiango Ripellino, la sua estrema funambolica raffinatezza nel comporre e nello scomporre quando ancora era consentito. Ora c’è il buio totale degli Arminio che si diverte a non dire nulla e proprio per questo è popolare. Occorre una piatta mediocrità, un adattamento al tempo del vuoto che non è mai cosmicanimato, ma terra terra, fugace, per poesie da repertorio ritardati che manifestano l’urgenza di tornare a parlare d’amore, l’argomento meno scomodo e più populista che esista, rimestato in salsa muffa che stantuffa l’acqua in bicchieri vuoti.
Questi sono i risultati politici di una democrazia della poesia col marchio per cui basta uscire e raccontare un pomeriggio di vent’anni prima, mentre ti dice, in foto arminiose da social distribuzione: fai un favore, leggi poesia!
Perché esiste ancora la poesia?
A me non sembra.
Aveva ragione Ripellino in Sinfonietta: Il mondo si sbriciola a guardarlo troppo.

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