Like, poesie brutte, poeti

Like, poesie brutte, poeti

Like, poesie brutte, poeti

Like, poesie brutte, poeti

L’asilo, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Like, poesie brutte, poeti

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Quando si attiva un concorso letterario o una iniziativa e si chiede di mandare poesie a tema, di solito chi scrive interviene e manda le sue composizioni senza esitare se la partecipazione è gratuita e promette un certo grado di visibilità mediatica.
I poeti sembrano dei bimbi dentro una clinica pediatrica, solo che la loro malattia non è il morbillo o la rosolia, la scarlattina o la varicella, bensì una volpicella che suggerisce loro all’orecchio ogni mattina, di dare preminenza assoluta al protagonismo e alla lisciata strategica.
Gente che mette il like a poesie veramente brutte, gente che io so che non apprezza per nulla quelle poesie veramente brutte a cui purtuttavia mette il like, gente che con un click si illude in qualche modo di fare strike e metter tacche sul limite della catarsi lisciapacche.
Odio queste vacche.
Eppure ce ne sono tante. La poesia nemmeno la leggono, il like lo mettono per compiacere il postante che di solito è anche l’organizzatore del concorso o della iniziativa, per attirarsi le sue simpatie e più questo organizzatore è importante, più likano. Per gli editor delle case editrici, c’è gente che si metterebbe in ginocchio a baciare piedi non lavati da un mese.
A questo punto una domanda è lecita.
Ma perché tutto questo?
In fondo con la letteratura non si guadagna neppure tanto, chi li legge più i libri?
Si vendono giusto due o tre non-libri del solito noto iper-pubblicizzato.
Allora che senso ha tutto questo spettacolo in continuo movimento, questo agitar di piume, lisciar pomelli, ungere ingranaggi, scrivere frasettine gentili così di circostanza che fanno cascare i denti ai coccodrilli che poi non è vero che si mangino i figli. I figli se li mangiano i poeti o presunti tali che sarebbero disposti a mangiarsi tutta la famiglia propria e pure quella degli altri, passando eventualmente sul cadavere di qualche amico, per un grammo di notorietà.
Ancora la domanda si ripete, imperterrita nella mia testa balzana: ma perché, a che scopo?
A veder da fuori tutto lo scompiglio sussiegoso e falso, le stirature con l’appretto, le sviolinate infiorettate, le nuvolaglie cuoriformi di tanti, troppi poeti e poetucoli che al 90 per cento confezionano rime come terra-guerra, fiori e tanti amori con condimento di una nuvoletta e di un marziano, messo lì così, che fa sempre un bell’effetto, a me viene francamente da ridere.
Il riso, diceva Leopardi, è contenuto in ogni sana disperazione, e francamente il disperato e disperante mondo poetico-editoriale, non può che far ridere. Ogni volta che lo osservo la visione mi suscita una prepotente ed irrefrenabile ilarità. Non posso farci nulla! È più forte di me!
Sono così patetiche viste da fuori tutte queste figure di sublimi ed incommensurabili letteratucoli, le vedi agitar le testine roteando gli occhietti di là e di qua, stendendo la lingua dove passa qualcuno che possa loro indicare la via o farle salire su un carretto che porterà alla città dei balocchi, dove 4 farlocchi e tre editor ballano il ballo del mattone fingendo che sia un valzer e cercano di far la cena di nozze con le unghie strappate dalle zampe di galline morte da secoli.
E sono così teneri quelli che fin dalla mattina mettono nei social cuoricini, animaletti e immagini di mani giunte sotto poesie inguardabili, componimenti così banali che fanno venire le lentiggini sulle ginocchia dei passeri.
Poi ci sono pareri così delicati da risultare inesistenti, sfumati in una genericità che salva sempre cavoli e capre seduti sullo stesso tavolo, salvo che le capre stanno in realtà sopra e i cavoli sotto.
Le capre mangiano i cavoli e tutto torna come prima. Si riapparecchia un nuovo tavolo, ciak, si gira, si parte, altra scena perpetuamente identica in cui ancora like, cuoricini, mani giunte, sorrisi smaglianti in dorati fragranti emoticons. Per un secondo più di qualcuno si illude di essere vivo ma è un agitar di tibie morte, un fermentare di umori malsani, di ego supergonfiati come l’esopica rana che poi scoppia. È la doppia illusione che stendendo tappeti di logora piaggeria sotto i piedi del padrone di turno, si possa diventare padroni, ma di cosa?
Vale la pena far pena? 

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Comment (1)

  1. Enza

    Sei tagliente e reale. Grazie

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