Emily Brontë, Cime tempestose

Emily Brontë, Cime tempestose

Emily Brontë, Cime tempestose

Emily Brontë, Cime tempestose

Emily Brontë, Cime tempestose, Garzanti, 1942, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Emily Brontë, Cime tempestose

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Se amate sprofondarvi nella noia o nella paranoia del mal d’amore, quello che fai per voi è l’unico (per fortuna nostra) romanzo di Emily Brontë, Cime tempestose, pubblicato nel 1847 sotto lo pseudonimo di Ellis Bell, poi ripubblicato postumo nel 1850 e oggi riproposto in tutte le salse perché considerato capolavoro indiscusso dai più.
Si tratta di un romanzo molto lungo e altrettanto noioso, storia d’amore, morte, vendetta e differenze di classe. I temi che affronta sono certamente importanti, tuttavia lo stile è tipicamente ottocentesco, con periodi lunghi, tortuosi e irragionevoli quanto assurdi pleonastici personaggi secondari. Mr. Lockwood, per esempio, il nuovo pigionale, compare all’inizio del romanzo e rimane inspiegabilmente affascinato dalla figura del proprietario Heathcliff, nonostante questi lo accolga a denti stretti e con malgarbo e venga maltrattato dai cani e dal pessimo e antipatico servitore Giuseppe. Lockwood è un personaggio del tutto inutile oltre che inverosimile.
Le descrizioni allungano tediosamente la narrazione un po’ sgranata e tutta giocata sull’assenza di un vero e proprio eroe, elemento che all’epoca dell’autrice, venne percepito come “scandaloso”.
In realtà agli occhi di un lettore contemporaneo di scandaloso e amorale, questo polpettone romantico, ha ben poco, ma considerando la bigotteria della società vittoriana, e valutando Heathcliff, il protagonista, come privo di quella dirittura morale imposta dai parametri dell’epoca, si può capirne il senso.
Tema principale del romanzo: la passione distruttiva tra Heathcliff e Catherine. La vicenda è calata nell’ambientazione cupa e vittoriana di Wuthering Heights, il casale nella brughiera dello Yorkshire di proprietà degli Earnshaw.
Si tratta di un romanzo oscuro, per certi versi byroniano e gotico. Si utilizza l’espediente narrativo della doppia narrazione che appesantisce inutilmente il racconto. Tale espediente, giudicato da alcuni positivamente, a mio parere rallenta moltissimo il ritmo della vicenda e dona alle pagine un tocco di falsità pettegola innescata dal fatto che chi racconta non è mai protagonista della vicenda, ma è soltanto uno spettatore esterno e racconta senza vero pathos, descrivendo asetticamente gli avvenimenti e infarcendoli di particolari che creano infinite lungaggini che si potevano benissimo evitare. Inoltre il romanzo è poco scorrevole, rivela uno stile di scrittura non maturo, a tratti ingenuo e vacillante, sfibrante per mancanza di genio e ironia (del tutto assenti) nell’innaturalezza posticcia e arzigogolata dei periodi.
La Brontë non si inventa nulla di nuovo perché il tema amore-morte è vecchio come il cucco, ampiamente sperimentato nel repertorio classico fin dall’antichità. Il tema inoltre subisce scarsa elaborazione creativa perché rimane imprigionato dentro la riduttiva dinamica satanica di un personaggio sempre uguale a se stesso che incarna il misterioso riscatto sociale, misterioso perché non si sa come Heathcliff sia diventato ricco. Ecco infine la vendetta che si conclude in un desiderio di commistione panico-pagana con l’amata Catherine, personaggio capriccioso e contraddittorio, che finisce con il sacrificare il sentimento alla convenzione sociale e a un matrimonio senza amore.
Da un punto di vista linguistico il romanzo non offre alcuna innovazione, è convenzionale, prolisso, i dialoghi piuttosto insignificanti e confesso di aver faticato a leggerlo fino in fondo. I personaggi visti dall’esterno non hanno profondità, sono come sagome di cartone disegnate su uno sfondo cupo e allucinato d’improbabili e forzate oscurità giocate tutte sulla trama e poco interiorizzate. Probabilmente oggi il libro della Brontë viene considerato un capolavoro perché ha contribuito a dare l’impulso alla letteratura di massa che va tanto di moda e ha sostituito la vera letteratura, ma rimane, se paragonato per esempio a Madame Bovary o Anna Karenina, sostanzialmente un romanzetto per donnette depresse e masochiste, con personaggi stereotipati e convenzionali incapaci di mutazione interiore, donne sottomesse e viziate e uomini rigidi come mummie immerse nella  litica e tenebrosa atmosfera ottocentesca che contrappone un microuniverso elitario e tarato all’intrusione Heathcliffiana dal mondo esterno non raffinato e di origini oscure.
La critica però segue strani percorsi nello stabilire cosa sia e cosa non sia capolavoro, e tutti le corrono appresso. Dopo un diniego giustificato forse dall’unico elemento valido del romanzo, ossia l’assenza di un codice morale imposto dal super-ego dell’epoca, i critici sono arrivati, non si sa bene per quale motivo, oggi alla conclusione che Cime tempestose sia una grande opera letteraria.
Per parte mia, l’ho semplicemente detestato.

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