Editoria? Ospedaletto post-guerra!

Editoria? Ospedaletto post-guerra!

Editoria? Ospedaletto post-guerra!

Editoria? Ospedaletto post-guerra!

Il ramo secco, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Editoria? Ospedaletto post-guerra!

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Stamattina un noto responsabile di biblioteca che gestisce pure un premio letterario e si vanta di capir molto di poesia, stila su fb un elenco di editori dalla A alla Zeta che pubblicherebbero poesia. Il condizionale è d’obbligo ma lo uso io, il postante, chiamiamolo A, usa il presente indicativo, come asserzione definita ed incontrovertibile.
L’elenco è asettico come le mura bianche di un ospedaletto post-guerra dove non si può e non si deve contare il numero di morti, di feriti e di moribondi stesi sui letti di degenza in ordine alfabetico, salme di editori grandi e piccoli, piccoli e grandi… Tanti, troppi…
Tutto tace. Troppo silenzio che diventa omertà che diviene consenso trasformato in leccascarpismo, uso questo termine perché quello che si riferisce alla parte situata un po’ più su nel corpo, è troppo nobile, qui siamo alla scarpa che tocca il terreno, alla sua lisciata strategica, lucidata la tomaia si passa alla suola, dunque anche leccasuolismo potrebbe andare bene per definire l’atteggiamento di A.
Il signor X, noto rompiscatole, commenta il post di A dicendo che molti degli editori in elenco non pagano i diritti agli autori, non stampano, non distribuiscono alcunché.
A aggrincia le nari, si gratta la testa, risponde con molta compassata flemma finta: il nostro interesse è quello di stilare un elenco di editori che pubblicano poesia e niente più.
“Il nostro interesse”. Eppure X ha sempre pensato che la poesia fosse l’atto più disinteressato e naturale del mondo, un moto interno che tracima fuori e trabocca perché non regge i limiti fisici di una corporeità troppo stretta, un movimento che ha bisogno di “altezze”, si fa per dire, metafisiche da cui si può guardare il mondo. C’è chi rifiuta di vedere e da quelle “altezze”, si cava di tasca una benda e se la mette sugli occhi, così vede tutto bello e può dire come A che un autore che pretende di essere pagato, è “obsoleto e seicentesco”. Ma sì, che volgarità, che barbarie lavorare e avere pure il coraggio di dire, pagami i diritti d’autore, caro editore a cui non ho lisciato mai le suole.

A è un bibliotecario che si occupa di poesia e di libri, ma non se ne occupa in profondità. Dei libri vede il prodotto finito, quell’oggetto vagamente svolazzante se lo apri, composto di una copertina e dei fogli, ma non ha il minimo interesse ad approfondire nulla, questo nonostante scriva poesie, pessime devo dire, egli stesso. La benda che ha sugli occhi gli impedisce di capire che la poesia è anche denuncia, non solo la registrazione asettica del volo di una farfalla, appena percepibile e percepito.
A cancella X dall’elenco dei suoi amici, perché X non vuole portare una benda e ci si intende solo tra bendati, gli altri sono fuori dal giro.
Ma in un mondo di ciechi bendati si può mai ottenere consenso?
No. Si deve tacere e subire, per evitare di essere presi per isterici poco lucidi, per esagitati non camomillizzabili.
I bendati voteranno persone che portano la benda, salvo poi lamentarsene agitando le braccia nel buio sostanziale che essi stessi hanno voluto e creato, per viltà.
La luce può far male, può mettere in evidenza le piaghe di quell’ospedaletto di cui parlavo prima, i cadaveri sfatti, gli orinali sotto al letto, i moribondi purulenti di un sistema che giace immoto da secoli, dall’Ottocento almeno, il secolo dei salotti, quando i bendati si riunivano tra loro per incensarsi e fare carriera.
L’ospedaletto è carico di morti ma i bendati, per evitare compromissioni, hanno turato le loro narici con la cera, così non vedono e non sentono gli odori del marcio.
Provvedono ben presto ad eliminare qualsiasi tentativo di protesta. Si tureranno con la cera anche le orecchie. Come le tre scimmiette, vivono il loro tempo nel politicamente corretto e nell’inedia di una fittizia tranquillità e ripeteranno a se stessi come in sogno: “il nostro interesse… il nostro interesse”, senza capire che se il sistema non funziona, non fa gli interessi di tutti ma di pochi, in un circolo vizioso che li porta dalle “altezze” in cui si illudono di sostare, fin sotto le suole di quelle stesse scarpe che leccano.
Se qualche reparto dell’ospedaletto chiude, i bendati poi si meravigliano, battono le teste contro i muri di gomma, si strappano i capelli, gridando alla perdita inesorabile di cultura e valori, per poi correre a presentare i loro libri da ciechi dentro le tavernette degli amici dove si appunteranno sul petto medagliette di latta e taglieranno il salamino della domenica, pensando di essere dei grandi rivoluzionari della parola scritta impanata di fuffa perlopiù fritta.

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