Fiore in bocca, moribondi social

Fiore in bocca, moribondi social

Fiore in bocca, moribondi social

Fiore in bocca, moribondi social

La gabbia, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Fiore in bocca, moribondi social

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Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla. (Con cupa rabbia:) E questo è da dimostrare bene, sa? con prove ed esempi continui, a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di sé stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni…

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Quello sopra, è un brano tratto da L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Il protagonista ha un fiore in bocca, un tumore, e perfettamente conscio di non poter riuscire a comunicare la usa condizione, si chiude in una sorta di solipsismo immaginativo. Prossimo alla morte, prende dunque ad immaginare la vita degli altri, ma non di persone che conosce, bensì di perfetti sconosciuti. Attaccarsi alla vita altrui per dimenticare la propria è il non plus ultra di una incomunicabilità cosmica e triste:

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Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…

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Disperato, dunque, l’uomo che sente vicina la morte, fa scatenare liberamente la sua immaginazione sulla vita degli estranei. Le persone note non sono interessanti perché già si hanno dati a disposizione, quindi sarebbe limitativo della fantasia interessarsene, invece lo sconosciuto sta là, pronto ad offrire un lauto pasto da condire a piacimento. Su un estraneo di cui non si sa praticamente nulla, si può congetturare qualsiasi cosa.
Ebbene, il paragone potrà sembrare irriverente ed impietoso, ma il popolo social a volte mi ricorda quest’uomo pirandelliano prossimo alla morte.
Ci sono nei social tanti, troppi moribondi del pensiero che da una parola altrui, traggono conclusioni fantasiose sulla vita di chi non conoscono e costruiscono castelli di carta che crollerebbero immediatamente a contatto con a realtà ma che sembrano stabili nel mondo ideale che si sono costruiti, per questo il social è spesso un luogo virtuale di profonda incomunicabilità. Vi regna l’emotività di superficie, una incapacità di analisi tesa solo all’autoconsolazione di un sé spesso devastato e che, con fenomeni proiettivi di stampo consolatorio, crede illusoriamente di vedere e percepire nell’altro ciò che sente come familiare, per avere un punto d’appoggio che non esiste o semplicemente per criticare senza basi concrete.
Mentre l’uomo dal fiore in bocca pirandelliano agisce con discrezione, in soliloquio, senza aggredire lo spazio altrui, tant’è che fa dell’osservazione del gesto e delle piccole cose anche un suo personale piacere gentile: «Ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche… Come le mangia lei? con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà; si premono con due dita, per lungo… come due labbra socchiuse… Ah, che delizia!», l’uomo social ha un fondo di tristezza abissale che lo conduce all’apprezzamento o al disprezzo finto solo in virtù del farsi notare, dell’esserci sempre a tutti i costi, in virtù di una meschinità di fondo che gli impedisce di godere realmente della filosofia del carpe diem, di quell’attimo che si coglie al volo e su cui si può riflettere a lungo. L’uomo social non ha tempo di pensare. Mentre l’uomo pirandelliano si ferma a guardare la realtà, pensa e diventa cosmica poesia, l’uomo post-moderno vede il riflesso di una realtà proveniente dalla visione limitata di uno schermo, non ha tempo per diventare arte, si immeschinisce nel pettegolezzo immaginativo di vite che pretende siano peggio delle sue, perché questo lo fa sentire meglio, ed elargisce risposte stereotipate, prevedibili, senza genio. Il trionfo dell’inutilità che diventa gossip e brusio da cortiletto globale.

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Rivista Il Destrutturalismo

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