Pirandello, nessuna arte fascista

Pirandello, nessuna arte fascista

Pirandello, nessuna arte fascista

Pirandello, nessuna arte fascista

Fiori spontanei, credit Mary Blindflowers©

 

Mary Blindflowers©

Pirandello, nessuna arte fascista

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C’è qualcuno che ride è una controversa novella pirandelliana. Ecco degli invitati, una folla. Essi ignorano il motivo di quella riunione nel grande salone illuminato da lampadari di cristallo. L’atmosfera è tetra, quasi surreale, favolistica, come sospesa. Gli invitati si guardano con sospetto, non comprendono, si sentono a disagio perché non riescono a intuire le ragioni dell’invito di tanta gente dalle diverse aderenze e conoscenze:

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La verità è che tutti questi invitati non sanno la ragione dell’invito. E’ sonato in città come l’appello a un’adunata. Ora, perplessi se convenga meglio appartarsi o mettersi in mostra (che non sarebbe neanche facile tra tanta folla) l’uno osserva l’altro, e chi si vede osservato nell’atto di tirarsi indietro o di cercare di farsi avanti, appassisce e resta lì; perché sono anche in sospetto l’uno dell’altro e la diffidenza nella ressa dà smanie che a stento riescono a contenere; occhiate alle spalle s’allungano oblique che, appena scoperte, si ritraggono come serpi.
– Oh guarda, sei qua anche tu?
– Eh, ci siamo tutti, mi pare.
Nessuno intanto osa chiedere perché, temendo di essere lui solo ad ignorarlo, il che sarebbe colpa nel caso che la riunione sia stata indetta per prendere una grave decisione. Senza farsene accorgere, alcuni cercano con gli occhi quei due o tre che si presume debbano essere in grado di saperlo; ma non li trovano; si saranno riuniti a consulto in qualche sala segreta, dove di tanto in tanto qualcuno è chiamato e accorre impallidendo e lasciando gli altri in un ansioso sbigottimento…

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Si sente qualcuno che ride però. Forse è una ragazzona di sedici anni, no, non è solo lei, sono tre le persone che ridono, e giocano a rincorrersi, la ragazza e due suoi familiari, il padre e il fratello. Gli invitati vorrebbero picchiarli, sbatterli al muro per la loro irriverenza (violenza cieca della folla agita). Quando i tre, stanchi, si siedono su un divano, ecco la folla che avanza e avanza, il loro sorriso si affievolisce fino a smorzarsi per quella folla che incede e che poi prorompe in una fragorosa risata. I tre pensano che siano tutti impazziti.

Ho sempre pensato che questa novella fosse una parodia dell’omologazione cittadina. Gli invitati agiscono tutti allo stesso modo, tranne tre che, guarda caso, sono di campagna. Questi rappresentano la spontaneità. La loro risata è autentica, non forzata, essi veramente si divertono tra loro, non si preoccupano delle ragioni per cui sono stati invitati, non guardano con sospetto gli altri, ma si abbandonano al divertimento sincero finché stanchi, si vanno a sedere. Ma la folla cieca che agisce in modo automatico, li aggredisce con la sua follia meccanica. La risata della folla ricorda infatti quella degli automi, e non ha nulla di individualmente spontaneo.
Vi si intuisce anche una parodia della società borghese che si fa sempre domande sulle aderenze di ciascuno, che vuol cercare di capire chi dirige i giochi, per trarne vantaggio. Chi sa le ragioni dell’invito però non si vede, non dà spiegazioni. Così tutti gli aristocratico-borghesi vestiti per l’occasione si interrogano e siccome non sanno nulla, iniziano a fare supposizioni che sono delle enormità e si sentono tutti angosciati mentre alterano la verità passandosela di bocca in bocca:

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Si cerca di desumere dalle qualità di chi è stato chiamato e dalla sua posizione e dalle sue aderenze che cosa di là possa essere in deliberazione, e non si riesce a comprenderlo perché, poco prima, è stato chiamato un altro di qualità opposte e d’aderenze affatto contrarie… Nella costernazione generale per questo mistero, l’orgasmo va crescendo di punto in punto. Si sa un’inquietudine come fa presto a propagarsi e come una cosa, passando di bocca in bocca, si alteri fino a diventare un’altra. Arrivano così da un capo all’altro del salone tali enormità da far restare tramortiti. E dagli animi così tutti in fermento vapora e si diffonde come un incubo, nel quale, al suono angoscioso e spasimante di quell’orchestrina, tra il brusìo confuso che stordisce e i riverberi dei lumi negli specchi, i più strani fantasmi guizzano davanti agli occhi di ciascuno…

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Coloro che non provano affatto angoscia sono i tre che ridono di moto spontaneo. Particolare importantissimo, i tre campagnoli non sono conosciuti, quindi non fanno parte della cerchia aristocratico-borghese degli invitati cittadini: “Chi l’ha invitato? Come si sono introdotti nella riunione? Nessuno li conosce. Nemmeno io. Ma so che è lui il padre di quei due ragazzi, signore agiato che vive in campagna con la figlia, mentre il figlio è agli studii qua in città. Saranno capitati a questa finta festa da ballo per combinazione”.

C’è chiaramente la dicotomia tra campagna e città, la prima luogo dell’anima e della spontaneità, la seconda invece paludata, inautentica, meccanica.
Questo gap si può leggere in tutta la produzione pirandelliana che condanna l’uomo che vuole impadronirsi della terra:

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Si sono appropriati del cielo per farci viaggiare le loro nuvole e i loro aeroplani; vi hanno visto certe loro immaginarie costellazioni e certi loro nomi hanno dato a tante stelle [… ]; sono diventati cosa loro i giorni e le notti; [… ] il tempo, che è senz’età, l’han ridotto in ère, in epoche, in millenni, secoli, anni, e ciascun giorno han dedicato a una loro festa e a un loro santo, senza che neanche le altre bestie della Terra ne sappiano nulla. (L. Pirandello, Novelle per un anno, Milano, Mondadori, 2007, vol. III, t. I, p. 648.)

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La campagna è l’habitat primigenio dell’uomo, la città è caos, come lo scrittore scrive in Romolo:

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Ora, quando qui sarà città, nessuno dei tanti figli di essa saprà di questo Romolo primo loro padre; come, perché sia nata la città; perché qui e non altrove. Su la terra, in un luogo, non si riesce più a vedere questa terra e questo luogo com’erano prima che la città vi sorgesse. Cancellare la vita è difficile, quando la vita in un luogo si sia espressa e imposta con tanto ingombro di pesanti aspetti: case, vie, piazze, chiese. Sotto il duro lastrico opprimente, alberi in esilio, la terra vi parla del rinnovato amor del sole, e voi fremendo l’ascoltate, beati nel pensiero ch’ella non si è dimenticata di voi lontani, di voi sperduti fra il trambusto della città. [… ] Ah, voi forse, mirando, quei verdi ciuffi timidi, concepite la folle speranza che la terra voglia far le vostre vendette, invader la città per riscattarvi; e vedete in sogno quei ciuffi crescere, e la vita diventare un prato e la città campagna!

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Con C’è qualcuno che ride, la critica si è davvero sbizzarrita con la fantasia interpretativa.
Per Leone de Castris, si tratta di “una non equivoca ferocissima satira di un’adunata fascista”.
Anche per Sciascia la novella di Pirandello è una satira del fascio.
L’arte per sua natura è sfuggente, quindi le interpretazioni critiche si nutrono spesso di supposizioni errate. Sciascia e De Castris hanno visto nella novella di Pirandello esattamente quello che volevano vedervi, l’antifascismo. Ma Pirandello non è stato mai antifascista, anzi, al contrario, fu un convinto fascista e un fervente ammiratore del duce. Il fatto che nelle sue opere non ci sia traccia di quel moralismo e di quella retorichetta fascista che, per esempio, ritroviamo nel ridicolo superomismo di D’Annunzio, è dovuto solo all’idea che Pirandello aveva dell’arte che doveva essere separata dalla politica e libera. Ce lo dice egli stesso su L’impero del 26 marzo 1926, in una intervista rilasciata al Valle: “L’arte e la politica sono due cose distinte. L’arte ha fine in se stessa e non può, anzi non deve risentire del momento politico, per quanto vigoroso possa essere, che intorno all’arte stessa si svolge…”.

E ancora sempre ne L’impero, 12 marzo 1927, rispondendo a Umberto Gentili:

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-Maestro, secondo il suo pensiero può esistere un’arte fascista?
-No. L’arte non può avere un fine che in se stessa, dargliene un altro significa ucciderla. Non si può, per intenzione, fare dell’arte fascista; facendolo, si fa della polemica e nient’altro…

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Pirandello è stato fascista, ce lo dice egli stesso senza possibilità di errore: “Mussolini non trova paragoni nella storia: non è mai esistito un condottiero che abbia saputo dare al suo popolo una così viva impronta della sua personalità”.

Tuttavia, nonostante l’infatuazione per il fascio, (chi è senza peccato scagli la prima pietra), Pirandello ha rivendicato sempre l’indipendenza dell’arte dal regime che pur gli ha dato qualche vantaggio.

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Comment (1)

  1. Mariano Grossi

    Condivisibile tutto. Pirandello era dichiaratamente fascista; apprezzabilissimo il suo smucchiarsi dalla logica dannunziana. Non è da tutti in regime totalitario mantenere un’asetticità propagandistica; nei secoli precedenti ci son cascati gente come Virgilio, Orazio e Tito Livio sotto Ottaviano Augusto, gente che per sopravvivere, alla faccia della oggettiva grandezza letteraria, ha dovuto fare il bucinator del princeps, intimorita fortemente dalle vicende dei non allineati come Cornelio Gallo e Ovidio. Va dato atto a Pirandello di essere rimasto artisticamente scevro da adulazioni al regime, peraltro mai nascosto nel privato e nel pubblico . Pensare comunque che uno artisticamente neutrale e indipendente potesse addirittura dileggiare le adunate oceaniche, alle quali peraltro si andava non per invito, ma per costrizione, è davvero concepire l’inconcepibile.

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