Il Destrutturalismo, Plutarco e gli dei

Il Destrutturalismo, Plutarco e gli dei

Il Destrutturalismo, Plutarco e gli dei

Il Destrutturalismo, Plutarco e gli dei

Stonehenge, credit Mary Blindflowers©

 

Angelo Giubileo©

Il Destrutturalismo, Plutarco e gli Dei

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La storia di Dio, il dio con la D-maiuscola, è anch’essa una storia particolare. Fatta, come sempre, di particolari; ma, ancor più, nel senso che questo stesso dio, scritto con la D-maiuscola, è, come ogni elemento, parte di un discorso più ampio che, interamente, lo contiene e quindi, in qualche modo, lo trascende. Gli antichi Greci sapevano tutto questo, al punto che il termine Dio poteva sovrapporsi e identificarsi esattamente con il termine Logos. Diverso dal temine latino Verbum, che indica piuttosto la parola e quindi soltanto un elemento di un (intero) discorso. Logos è altresì termine correlato al verbo leghein, che indica l’azione di radunare, raccogliere, mettere insieme. E quindi: radunare, raccogliere, mettere insieme singole lettere e formare parole significative; radunare, raccogliere, mettere insieme parole e altri simboli (come accenti, segni di punteggiatura, parentesi, numeri etc.) e formare una frase significativa; radunare, raccogliere, mettere insieme frasi e formare un discorso significativo.

E tuttavia, di tutti questi elementi o parti del discorso, ignoriamo, davvero, ogni significato. Infatti, il significato non è altro che la risposta presunta a un perché, che viceversa noi uomini non abbiamo il dono di comprendere. Così che non ci resta che pensare e agire come se fosse, e quindi montare, smontare e rimontare a nostro piacimento ogni singolo elemento o parte, compreso noi stessi, con cui veniamo a contatto. Allo stesso modo e quindi come, da neonati adulti e vecchi, facciamo con i mattoncini del gioco del “Lego”.

Dio, o meglio – spero per voi che l’abbiate capito -: ogni “dio” è dunque parte di questo nostro gioco, di cui, naturalmente, anche noi stessi siamo parte. Lo spero per voi, dato che, normalmente, siamo diventati vittime, spesso inconsapevoli, di uno schema, un modello della mente cartesiana (quale errore grossolano!) che sacrifica continuamente le diverse parti del nostro essere. Un sistema “costruito” in modo che ogni singola parte sia riconducibile all’intero, e cioè al sistema medesimo, attraverso un legame che tiene saldamente avvinti, come la spirale di un serpente, ogni elemento del corpo.

Ma, così dicendo, rischiamo di rappresentare piuttosto quello stesso errore da cui, viceversa, sarebbe opportuno emendarci. E allora, diciamo subito che non deve essere, forse, un caso che “tre” sia indicato come il numero perfetto. Capite bene che sia impossibile risalire all’origine di una presunta tripartizione originale dell’intero, ma, è pur vero, si fa per dire, che esistono comprovati indizi in tal senso. A esempio, tutte le mitologie parlano di un Dio uno e trino. Con la D-maiuscola. Secondo molti e più recenti studi e scoperte, tutte forme di un Dio riconducibili all’immagine del Sole e quindi a un unico originario culto e rito solare. In estrema sintesi, il concetto di Dio sarebbe riconducibile all’immagine del Sole nel suo triplice aspetto – si dice – di neonato, adulto e vecchio. E quindi, in ogni caso, si tratterebbe di un dio per così dire naturale, il Sole, che presiederebbe al culto e al rito della vita stessa. In senso più ampio, potremmo anche ritenere il Sole quale fonte di energia intenta a governare l’intero – passato, odierno e futuro (?!) – sistema, che per l’appunto è detto solare, e quindi, diversamente da quel che appare oggi, parte di un sistema viceversa più ampio. Di dei smembrati ne conosciamo abbastanza, tanto che da Ganesha a Gesù il passo è lungo e breve al tempo stesso.

Sarebbe interessantissimo scoprire chi sia stato il primo. Ma, personalmente, mi limito a offrirvi un indizio, anche se non è detto che si tratti proprio di lui: Ymir, figura d’uomo, che i giganti della brina chiamano Aurgelmir (Snorri Sturluson, Edda). Ma, come egli abbia avuto a che fare con il Sole, è questo il “mistero” che andrebbe piuttosto scoperto. Interrogando – è chiaramente un modo di dire – Osiride, sir James Frazer si chiedeva che fosse certo possibile affermare che il sole muoia ogni giorno; ma in che senso si può affermare che venga smembrato? In effetti, anche se rievocassimo l’antico Eden artico, originario, in cui il sole appariva ed appare sulla linea dell’orizzonte, stabilmente, per circa sei mesi all’anno risulterebbe ancora più strano, per non dire sconcertante, immaginare il corpo solare come un corpo smembrato.

E tuttavia, un dato sembra certo: il dio oltre che uno appare egli stesso anche trino. Seguendo le rotte che dall’Artico conducono, a est, verso il sud della Cornovaglia, la steppa caucasica e quindi dall’India fino all’antico bacino indoeuropeo, due tappe appaiono molto significative: Stonehenge e l’India vedica. Su Stonehenge si è detto e scritto moltissimo, e moltissimo altro ancora si dirà e scriverà; quel che appare più evidente, ammesso sempre che lo sia, è che l’area e il complesso monumentale avessero la funzione di un osservatorio astronomico, risalente forse alla fine del IV millennio dell’evo antico. Fatto per se stesso riconducibile all’osservazione quindi del cielo e degli astri, e in particolare la Luna e il Sole. Del resto, sembra che alcuni primi calendari siano stati adottati in base all’osservazione delle fasi lunari – dodici – attraverso un arco temporale, regolare (ma mai esattamente – dato il fenomeno della Precessione degli Equinozi), di 354/355 giorni.

Bal Gangadhar Tilak osservava, in estrema sintesi, rispetto alle sue ricerche e analisi, che ogni culto o rito è costruito in base alla nozione di Anno – che misura la ripetizione e quindi la regolarità di un fenomeno (dio) che appare – suddiviso poi, tutt’ora, in 12 mesi; come le fasi lunari, le costellazioni dello zodiaco, e tantissime altre cose tra cui le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli che avrebbero seguito il Nazareno. Nelle storie dei miti, la fase e quindi la rappresentazione di ogni congiunzione astrale è considerata un evento magico, un’epifania del dio che svela se stesso, ovvero fornisce la spiegazione di un fenomeno che, se si ripete regolarmente, non può che diventare esso stesso soggetto e oggetto di culto. L’eclisse totale, per i popoli più antichi, rappresentò (forse!, è bene non dimenticarlo mai …), al meglio, il mistero della conoscenza del più antico Cosmo (greco) diviso tra Terra, Sole e Luna. Nel tempo esatto dell’allineamento dei tre corpi, la luce sembra in effetti che sparisca del tutto e al suo posto, sia pure per un istante soltanto, facciano capolino le tenebre. <Luce> e <tenebre> sono finanche i termini che usa ancora Parmenide, prima che i postsocratici irrompano a squarciare il tempio della “primitiva”, nel senso di primeva e che ha la primazia, saggezza scettica. Insuperabile.

I fatti naturali mischiati ai fatti divini sono conseguenza della costruzione umana, che segue, di una struttura relativa a ogni struttura umana possibile. Dopo una vita dedicata alla ricerca dell’origine delle lingue indoeuropee, Franco Rendich scrive e aggiorna da anni un prezioso codice sulla “struttura e genesi della lingua madre del sanscrito, del greco e del latino”. Naturalmente, si tratta soltanto di un ceppo risalente a un fenomeno migratorio che un giorno di circa 10.000 anni fa vide protagonista un folto gruppo di uomini e donne, proveniente da una regione prossima al Polo Nord, giungere, dopo l’inizio, in un villaggio situato nel circolo polare artico (F. Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee).

Nel sanscrito, le lettere “d” e “m” costituiscono un deposito di tradizione fondamentale per i culti, i riti e le tradizioni che seguiranno ovunque. La lettera d significava “luce” e da essa chiaramente derivano i nomi del giorno, del cielo e del dio/Dio. E’ importantissimo notare che, invece, “d” era il simbolo della luce <creata> e non della luce <creatrice>, ka; da “k” che significava un moto cosmico, curvilineo, avvolgente. “k” precede “d” e “m”, che sta per “misura”: Tutto ciò che esiste al mondo ha un limite e una misura (Ibidem). Da m derivano parole come mente, mano e, in inglese, il termine man indica l’uomo stesso, che Protagora dice ancora infatti “misura di tutte le cose; di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono”. E man è infine radice che nelle lingue indoeuropee rinvia innanzitutto a: “la misura (m) dell’energia vitale delle Acque (an/na)”, “attività della mente”, “contenuto della mente”, “pensare”, “ricordare” (Ibidem).

Siamo così approdati all’inizio di Kronos e, in principio, alla contesa tra le stirpi dei Deva (mente) e degli Asura (bocca) e la conseguente scelta definitiva di Prajapati-Ka(os) in favore dei Deva; episodi, fatti o fenomeni, dei narrati nei Veda e descritti piuttosto in una forma che diciamo metafisica e, per tanto, appartenuti a più antiche stirpi “divine”. A differenza, in qualche modo (come), dei fenomeni o dei più frequentemente narrati nei miti dell’Occidente, dove si è preferito e si preferisce storicizzarli e quindi renderli, in qualche modo e rispetto alla fisica degli elementi e dei corpi, maggiormente partecipi. Ma, senza distinzione alcuna, mantenendo tutti i i fenomeni, sia che appaiano che non appaiano, la caratteristica di parte, così come il concetto stesso di Dio. Che, nella rappresentazione del teatro classico greco, non a caso interviene ex machina a dirimere la questione ovvero a porre fine all’intero discorso, inscenando la propria <parte>.

Plutarco, a cavallo delle due ere, antica e moderna, ci ha lasciato un’ampia testimonianza e soprattutto lettura e quindi interpretazione di quanto abbiamo qui pallidamente e vagamente accennato. In particolare, nell’adversus Colotem, egli scrive che bisogna ammettere ogni sensazione, senza escluderne alcuna, e che non bisogna dire alcunché circa l’intero, dato che, in natura, il contatto avviene solo tra parti. Non c’è che dire, Plutarco è stato davvero un magnifico ed eloquente destrutturalista.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Rivista Il Destrutturalismo

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