Bachtin, L’opera di Rabelais

Bachtin, L'opera di Rabelais

Bachtin, L’opera di Rabelais

 

 

Bachtin, L'opera di Rabelais

Bachtin, L’opera di Rabelais, credit Antiche Curiosità©

 

Mary Blindflowers©

Bachtin, L’opera di Rabelais

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I quattro secoli di storia della comprensione, dell’influenza e dell’interpretazione di Rabelais sono molto istruttivi dal momento che tale storia è strettamente legata in questo periodo a quella del riso, della sua funzione e della sua comprensione. I contemporanei di Rabelais (e quasi tutto il XVI secolo), vivendo nell’ambito delle stesse tradizioni popolari, letterarie e ideologiche, nelle stesse condizioni storiche e sociali, hanno ben compreso il nostro autore ed hanno saputo apprezzarlo. I giudizi dei contemporanei e dei posteri a lui più prossimi, come ci sono pervenuti, confermano l’alta stima per Rabelais.

Così esordisce Bachtin al capitolo primo de L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, dopo aver citato A.I. Herzen circa il fatto che sarebbe interessante scrivere la storia del riso.
E del riso in effetti Bachtin parla diffusamente, un po’ meno di Rabelais, tradendo in parte le aspettative del lettore sul titolo del libro e approfondendo poco la lettura del testo rabelaisiano che viene citato qua e là, pour parler, come vero pretesto per parlare di riso, carnevale, feste dell’asino e dei folli, piazza, cultura popolare e grottesco in genere. Un libro interessante ma a tratti riduttivo e ripetitivo con affermazioni un po’ superficiali.
Che Rabelais fosse stato compreso appieno dai contemporanei, per esempio, non è del tutto vero. Scrive a tal proposito Gennaro Perfetto in Francesco Rabelais e i suoi tempi:

Rabelais, combattuto da cattolici e protestanti, inviso alle donne ed ai partigiani del sesso gentile, avversato dalla Pleiade e dai nuovi letterati, poco intellegibile, non ottenne dai suoi contemporanei quella considerazione che l’opera sua meritava. Le poche notizie dei contemporanei sopra Rabelais sono alcuni epitaffi, scritti – i più importanti almeno – dai poeti della Pleiade. Il più famoso è quello di Ronsard. In esso Rabelais è rappresentato come uno che non ha fatto altro in vita sua che bere sempre, notte e giorno, in tutte le ore, a diguazzare nel vino come una ranocchia nel fango: ed il viandante è consigliato a spargere sulla tomba di lui non già fiori ma vino e salami. A costa dell’epitaffio francese di Ronsard va messo quello latino di Gioacchino Dubellay, che dice: “In questa tomba giace una tomba. Stupisci? Comprenderai quando avrai appreso il mio nome. Io sono Panfago (mangiatutto), oppresso sotto la massa schiacciante di una pancia smisurata. Il Sonno, la Ghiottoneria, Bacco, Venere ed il giuoco sono state le mie sole divinità per tutta la vita. Chi ignora il resto? Io esercitava l’arte di guarire, ma l’arte di ridere era la mia unica cura, perciò non versare lacrime ma ridi se vuoi riuscire gradito ai miei mani”.

Perfetto aggiunge anche che i due autori non calunniarono Rabelais ma semplicemente riportarono su di lui l’opinione allora dominante : “gli epiteti che gli davano erano quelli che gli davano gli altri che lo nominavano, come attesta Maurizio de la Porte”.

La verità, come sempre sta in mezzo, infatti è vero che Rabelais ebbe un certo successo di pubblico coi suoi libri che non lo fecero comunque diventare ricco, infatti ebbe per tutta la vita problemi economici. Non mancarono tuttavia i detrattori né le censure della Sorbona, tanto che dovette firmarsi con uno pseudonimo Maitre Alcofrybas Nasier, anagramma del suo vero nome.
Bachtin propone un’interpretazione unilaterale dell’opera Rabelaisiana, perché non parte con il proposito di un’analisi oggettiva del testo che di fatto non fa. Il suo interesse precipuo è la festa di piazza e la tradizione popolare, da qui parte, adattando il testo rabelaisiano alla sua passione per la piazza e per il comico e introducendo il suo lavoro di ricerca con ben 68 pagine, un vero e proprio microsaggio sul riso, pagine che però avrebbe potuto benissimo risparmiarsi, dato che poi il lettore le ritrova pari pari dilatate nel testo, a ripetere sempre gli stessi concetti: che il riso costituisce una dimensione non ufficiale; che durante il carnevale si è ritagliato un suo spazio in cui il mondo viene riprodotto alla rovescia in modo irriverente, anti-sacrale, antidogmatico; che il comico è stato sottovalutato come indizio di una produzione letteraria deteriore, etc, etc., concetti reiterati all’infinito lungo tutto il libro la cui lettura è sicuramente scorrevole ma piuttosto ridondante.

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