Alfonso Guida, tutta prosa

Alfonso Guida, tutta prosa

Alfonso Guida, tutta prosa

Alfonso Guida, tutta prosa

Il papavero, credit Mary Blindflowers©

 

Lucio Pistis & Sandro Asebès©

Alfonso Guida, tutta prosa

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C’è chi sostiene che non ci sia nessuna differenza ormai, nel mondo contemporaneo, tra prosa e poesia e chi chiama poeta chiunque scriva in prosa e abbia l’idea di mandare a capo i suoi ghirigori. Noi invece, col rischio di essere chiamati capre e ignoranti da chi ben pensa, riteniamo che tra prosa e poesia ci sia più di qualche significativa differenza e che non basti buttar giù sulla carta qualche oscura ed incomprensibile metafora per essere definiti a gran voce poeti, un termine del resto abusatissimo. Quante volte sentiamo pronunciare queste frasi: “Il più grande poeta vivente, un poeta immenso, una voce significativa ed unica nel panorama letterario-poetico del nostro tempo!”? Sembrano gli slogan di una pubblicità ad effetto, con la sola differenza che il prodotto reclamizzato non è un dentifricio, il miglior dentifricio disponibile sul mercato, ma un libro o un oggetto che perlomeno sembra averne la forma.
Ecco una poesia tratta da “Luogo del Sigillo”, Fallone editore, 2017, poesia di tal Alfonso Guida che mal sopporta le critiche e che viene definito da certa stampa un grande poeta. Leggiamo dunque:

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Resta attonito a guardare la crescita
furente dell’ibisco. È il solo fiore
del nostro davanzale. Non sapeva
cosa fosse il mare, l’imbarcadero
con le zagaglie, eppure sentiva ogni
giorno quell’odore provenire dal
fondo del giardino. Sergio era entrato
laggiù, a Torremozza, col solo cruccio
del pigiama rotto, sua madre avrebbe
potuto rammendarlo, ma l’ago era
solo un fiammifero con la capocchia
piena di sangue, un dolore ordinario,
minimo, all’alba sentivi i suoi zoccoli
di legno girare tra il refettorio e il
corridoio. Sembrava inseguisse le
porte lontane, inchiavardate, quelle
che in prospettiva correvano dentro
la mente come belve. Andò via il sedici
luglio. Ci tornò altre volte. Non volle
salutare. Il pigiama rotto e azzurro
restò chiuso nel grembo del cuscino.
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In questa poesia non c’è di fatto nemmeno un verso. È un testo completamente in prosa, oltretutto nemmeno si può dire che abbia una bella prosa poetica. Qui di poetico non c’è assolutamente nulla. È un raccontino che va a capo. Il ritmo è totalmente assente. Le frasi seguono una costruzione strutturale tipica di una prosa ordinaria, senza impennate di genio. Il lessico è orientato al colloquialismo e al gergalismo con imprecisioni grammaticali evidenti: perché si passa ex abrupto dalla narrazione al presente all’imperfetto nel giro di due linee? Ammessa e non concessa l’attribuzione di folle e iracondo ad un fiore dolcissimo e delicatissimo come l’ibiscus, pur caratterizzato com’è da uno sviluppo repentino ed effimero, rileviamo comunque connessioni concettuali oscure e indistinte: il protagonista sarebbe inconsapevole a riguardo della distesa marina nonché di una banchina d’attracco di imbarcazioni che sarebbero piene di armi da urto (senza capire perché e dove ci si collochi), però, nonostante queste incapacità, lo stesso sarebbe in grado di percepire l’odore del mare. Che legame vincolante e concessivo ci sarebbe tra questa attitudine olfattiva e le inconsapevolezze prima descritte? Vuol dirci il poeta che l’odore del mare avrebbe dovuto stimolare Sergio ad andarci per conoscerlo? Il verbo rompere attribuito ad un indumento odora di colloquialismo, strappato, scucito suonerebbero decisamente più congrui. L’aggettivo possessivo suoi a chi è riferito? Alla mamma di Sergio o a lui stesso? Narrazione confusa ed imprecisa. Resta oscurissimo il valore metaforico di stipiti distanti chiusi a chiave a scorrazzare nel cervello animalescamente: che vuole comunicare l’autore con questa immagine che “theromorfizza” una porta chiusa? Il grembo del cuscino indica una strana abitudine di Sergio di riporre il suo pigiama all’interno della federa del guanciale? Pieno di stranezze questo racconto confuso e arruffone!

Ma andiamo avanti, che una rondine non sempre fa primavera:
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Maelstrom, diceva quando gli veniva
mal di testa. Se ne andava in giardino.
Passeggiava. Poi gli bastava scorgere i
colori abbrumati del selciato e tra
sé diceva: è tutto finito, quando
me ne andrò? Parlava a voce alta. La nausea
gli aveva impregnato la maglietta intima.
Si nutriva in modo irrazionale. Ora
la luce scolpiva il vialetto curvo,
bronzeo, gli piaceva vedere quella
trasformazione cromatica, anche qui
c’è Costantinopoli, e si metteva in
circolo a guardare le venature
del tramonto. Poi piano prendeva le
scale. Tornava in camera. Era l’ombra
di una catastrofe imminente, l’uomo
delle sagome nere e più oltre il mare.
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Anche qui non c’è un solo verso. Anche questa non è una poesia, ma un brano di prosa. Evidentemente l’emicrania suscita nel protagonista sensazioni analoghe a quelle delle correnti di marea nordiche, se il messaggio criptico viene decifrato a dovere. Singolare l’effetto pervasivo della nausea su un capo di abbigliamento intimo, mai sperimentato personalmente, ma evidentemente l’autore ha capacità traslative dei malesseri sugli abiti! Originalissima ma poco credibile metafora umorale. Non molto elegante quel passaggio (peraltro già praticato alla linea 5) ex abrupto senza punteggiatura dalla narrazione a una verosimile mimesi del protagonista quando si esclama “Anche qui c’è Costantinopoli”. Resta anche da capire se il mettersi in cerchio a guardare, visto che si sta parlando solo del protagonista, presupponga la presenza di altre persone che fino a quel momento non è dato intravedere nella διήγησις. In chiusura pare intravedersi un ἀπὸ κοινοῦ del verbo essere tra l’esser ombra di catastrofe incombente da parte del protagonista e la presenza dell’entità mare ben al di là della collocazione fisica di lui, ma, mentre il primo sema è quello della semplice copula, il secondo presuppone una valenza assimilabile ai verbi “stare”, “esserci” “trovarsi”: si direbbe una mezcla di significati non proprio formalissima.
Guardando poesia per poesia di questa e altre raccolte, ci si accorge che si tratta di storielle minime e aritmiche piuttosto inerti, oltretutto ripetutamente intimiste e innocue dal punto di vista contenutistico. C’è l’evidentissima ripresa di registri triti di certo abusato lirismo novecentesco tutto racchiuso nell’esaltazione di io che pensa di essere speciale, in un parossistico bisogno di parlare continuamente di se stesso:
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Invece debbo
mettermi le mani addosso, ogni giorno,
per capire che esisto.

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E su fb precisa con sussiego: “la poesia nasce dal racconto variegato e multistilistico di me”…

 

L’importante è che questo poeta tutta prosa multistile, le mani addosso non venga a metterle a noi per aver osato dire il nostro pensiero in libertà.

Vale.

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DESTRUTTURALISMO Punti salienti

Libri Mary Blindflowers

 

 

 

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