Piccolo Manuale di Cannibalismo

Piccolo Manuale di Cannibalismo

Piccolo Manuale di Cannibalismo

Di Gaetano Altopiano©

Piccolo Manuale di Cannibalismo

La cena del prete, mixed media on canvas by Mary Blindflowers©

 

PICCOLO MANUALE DI CANNIBALISMO
(micro-dissertazione sull’antropofagia)

“Per l’ottima cottura del cosciotto umano – io che amo molto la cellulite – mi segno questa data, venti trenta quaranta, questi aromi, storia della macellazione occidentale, questi dosaggi, cento sessanta gradi di latitudine sud, e la temperatura giusta, che è importante sapete: sentirmi organizzato mi rinfranca; in seguito solo i più piccoli dettagli. Il gatto, per esempio. Il cane, per esempio. Persino i chiodi d’acciaio del carpentiere. L’omuncola di Syracuse, New York. Prende coraggio, si strofina – prima in un senso, poi nell’altro, poi verso l’alto, il basso, poi a movimenti ondulati e costanti e a piè sospinto – l’omuncola di S., N. Y., dicevo, strofina, vi dicevo, un’affilata minuscola lama sulle due gambe irte di melliflua peluria. Curva quel dorso cui sono serviti non so più quanti milioni di anni per erigersi in altezza e posiziona il corpo in modo innaturale, come io non avrei mai immaginato, insomma. Pensate: niente orizzonte, solo sorrisi ammiccanti e crema da barba. Gambe divaricate, testa in giù, rasoio tra indice e anulare, mano sinistra stranamente; sul tetto piccoli dolci e millefoglie, miriadi di coccinelle, un’armatura del sedicesimo secolo, due reggicalze da uomo, tre sigarette elettroniche, un urlo raggelato nell’attimo dell’emissione, un pezzo di fegato sanguinolento (cui ci saremmo dedicati in futuro). Nient’altro. In lei unicamente quella passione voluttuosa e innocente, ma coltivata a dovere: riempirsi di strutto il più possibile. Belle stelle minori si dispiegano allora in un firmamento di ben altre fulgide e inutili stelle: glutei enormi di gelatina, fianchi con smagliature, la doppia pancia, pelle a buccia d’arancia. O grasso, dice. Maledettissimo grasso. Che alla malinconia conduci.”
(da Belle Stelle Minori)

Tralasciando gli episodi di cannibalismo umano occasionale e necessario, escludendo, per esempio, il naufragio della baleniera Essex, 1820, dove i sopravvissuti si cibarono di carne umana, o il drammatico disastro aereo avvenuto il 13 ottobre 1972 sulla cordigliera delle Ande, in Perù, dove le 16 persone rimaste furono costrette a cibarsi delle membra delle 29 restanti vittime, episodi che alla nostra analisi contano ben poco, il mito e la pratica dell’antropofagia sono più diffusi di quanto in realtà non ci sia dato sapere e contengono un messaggio antropologico e cultuale preciso.
Società di cannibalismo, endogeno o esogeno, perlopiù rituale, sono esistite praticamente in ogni epoca, a partire dal periodo del Paleolitico. Ne esistono in Brasile, presso gli amerindi, dove l’antropologa Beth Conklin, negli anni 80, ha assistito a pratiche mortuarie con consumo di carne umana, presso gli aborigeni australiani, in Melanesia, in Africa (Congo, Liberia, Nigeria, dove esiste addirittura un mercato di carne umana fresca) e nel sud est asiatico, soprattutto in India, dove tuttora la setta indù degli Agori consuma la carne dei cadaveri abbandonati sulle rive del Gange.
Un fatto interessante riguarda uno degli aspetti della pratica antropofagica, nel caso di vittime uccise per l’occasione, non abbastanza trattato, probabilmente per le sue implicanze misteriche che disvelate relegherebbero a un piano inferiore il disgusto per una pratica contro-natura, privilegiando, invece, un’inaccettabile predominanza dell’importanza del rituale: l’attribuzione e il valore dei ruoli. Al di là del suo effetto sconcertante si potrebbe sostenere con buona approssimazione che nel cannibalismo le figure di vittima e carnefice rivestano la medesima importanza iniziatica e che dai due soggetti, questa, sia vissuta con la stessa identica quota di delirio. Giacché, traslato sul piano cerimoniale, i due intervengono in modo complementare in qualità di “fedele” della pratica, il primo, e “sacerdote” della pratica, il secondo. Entrambi imprescindibili al rito.
Ipotizzabile che l’imprinting che spinge il “fedele” al sacrificio – visto dai nostri occhi profani, appunto, come la parte lesa – sia identico a quello del “sacerdote”, nonostante si tratti di un impulso che conduce alla perdita della vita, ossia, che il “fedele” lo consideri funzionale e nel contempo inevitabile alla pratica rituale cui partecipa e di cui è succube (un po’ come la spinta suicida che governa inspiegabilmente la coscienza di un kamikaze fino ad avere la meglio sul suo sacrosanto istinto di sopravvivenza). Imprinting che non può che essere contenuto nella zona più antica del cervello: l’ippocampo. Da qui la sua potenza pulsionale.
Consideriamo la scena in cui il dottor Hannibal Lecter (Anthony Hopkins) scoperchia il cranio di Paul Krendler (Ray Liotta) e ne cava fuori un pezzo di cervello che friggerà da lì a poco e che innaffierà con un buon bicchiere di Chianti. (Hannibal, 2001). Liotta è sotto sedazione, e, sebbene abbia una completa resezione della calotta cranica collabora come parte attiva alla riuscita della macabra cena. La vittima sacrificale è consenziente. E non importa sia sotto l’effetto di oppiacei: nella finzione scenica, che si trasmette al nostro immaginario come ipotesi “storica”, dunque come possibilmente reale, viene identificato come partecipe. Ed è così, infatti. Dato che la sedazione non crea una condizione ex-novo dello stato della coscienza ma modifica, allentandone resistenza e freni inibitori, la sua condizione primitiva rendendola adesso “ben disposta”.

 

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-psico-pillole/

https://www.youtube.com/watch?v=funyLWbkFNY

 

 

 

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