Il peccato per la letteratura non esiste

Il peccato per la letteratura non esiste

Il peccato per la letteratura non esiste

Di Pierfranco Bruni©

Il peccato per la letteratura non esiste

Prati verdi, credit Mary Blindflowers©

Gli scrittori sono i viandanti tra le pieghe del sogno. Resteranno ancora viandanti per porgere a chi ascolta la follia o quella pazzia degli amanti che si sentono unici nei segreti ma i segreti sono sempre segni rivelati. E la passione che noi stessi abbiamo raccontato e che raccontiamo non è soltanto quella di una sensualità trafitta dalla fisicità, dall’eros che si fa carne e penetrazione di cuori e di corpi ma oltre ad essere questa, per noi, la passione è stata ed è la rivelazione della croce, il superamento del peccato, la solitudine di uno scrittura che conosce la difensiva delle partenze e il gioco dei ritorni. 

La passione non è soltanto amore e morte. È anche il calvario e forse il tradimento consumatosi tra gli ulivi del Getsemani. Ma quale Cristo avrebbe avuto voce senza la figura di Giuda e Giuda avrebbe avuto un nome nella spirale della rivelazione di Cristo senza la capacità di Claudia nel cercare di convincere Pilato? Abbiamo perso anche il senso della persuasione perché si è interrotto il dialogo e lo scontro tra Cristo e Giuda. Che cosa ha significato il suicidio di Giuda? E senza questo suicidio il disegno della storia occidentale si sarebbe posto il problema della vita violata e della morte inviolabile nell’intreccio tra Oriente e Mediterraneo? La letteratura non conosce la teologia, non la può conoscere, non la deve conoscere e tanto meno deve pretendere di entrare tra le maglie della teologia. Perché la letteratura è mistero, è l’indefinibile mistero che circonda la vita dei mortali e pone i personaggi nell’immortalità del mito. 

Pensiamo ai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Il limite tra mortalità e immortalità in una grecità assoluta in cui il mistero è divino ma non cristiano è un inciso che resta. La nostra temperie ha avuto la capacità di sconfiggere anche il limite realtà – mito lungo le sponde della mortalità – immortalità. E tutto questo non è forse dovuto ad un vuoto nel quale il cosiddetto modello progressista ha preso il sopravvento? L’età del progresso non è l’età della ragione. L’età del progresso si è trasformata, senza i codici di ciò che della tradizione si deve salvare, nell’età del consumismo conformistico. 

Le meccaniche della scrittura possono essere liturgia nell’incoerenza dei linguaggi ma non possono fare a meno di quella tradizione fatta di costante testimonianza tra l’essere e il tempo. In questo essere il tempo si inserisce nello spazio interminabile e indefinibile che diventa la cifra di una poetica che Bachelard ha definito come la poetica dello spazio. Dovremmo forse recuperare questa poetica dello spazio in una solitudine dechirichiana che ci dovrebbe permettere di vivere il grido della pazzia tra i colori di Van Gogh e lo sguardo straziante di Munch. Ormai non siamo più uomini del perdono. Siamo stati perdonati ma non condannati. Siamo in uno stato di perenne processo. Perdono? 

Ci poniamo davanti a questa parola perplessi, sgomenti e restiamo in attesa, ma dovremmo poter sconfiggere l’origine del peccato con le parole del Cristo pronunciate a Maria Maddalena. Maria Maddalena cammina tra di noi e senza alcun peccato ma in un processo che chiede una riabilitazione che non potrà esserci perché mai è stata condannata perché mai ha commesso peccato. Il peccato non esiste. A volte la contemplazione ci viene in aiuto. Il cristianesimo deve sconfiggere il senso del peccato che ci ha instillato perché dovrebbe vivere invece in una costante dimensione di grazia dentro il segno della contemplazione che tocca la spiritualità. 

La contemplazione non è un miraggio ma non è neppure il restare seduti su uno scoglio e osservare semplicemente le onde di un mare che cercano di ammorbidire la roccia. L’essere contemplanti, dunque, non è soltanto, l’essere pensanti. E quello che riesci a vedere al di là della linea di congiunzione tra il cielo e il mare. E sapere che ogni attesa non è una vana pretesa ma è cercare che qualcosa possa toccare il silenzio. L’essere contemplante è il gioco di una rivelazione che non smette la pratica di una alchimia antica e misteriosa che solo gli sciamani in alcune culture possono tramandare. Tramandare è vivere la tradizione dell’antropologia.

Abbiamo bisogno di questo forse? Ma di cosa necessita questo tempo agonizzante e moderno? Non siamo intellettuali ciechi, eppure abbiamo sempre creduto alla forza di Tiresia, ma non siamo degli indovini perché nella nostra storia – tempo c’è il destino che guida i passi della profezia. Come Virgilio, ma viaggiatori come Ulisse, traditi e traditori ma profeti, come avrebbe detto Ezra Pound. 

Gli scrittori sono i viandanti tra le pieghe del sogno. Resteranno ancora viandanti per porgere a chi ascolta la follia o quella pazzia degli amanti che si sentono unici nei segreti ma i segreti sono sempre segni rivelati. E la passione che noi stessi abbiamo raccontato e che raccontiamo non è soltanto quella di una sensualità trafitta dalla fisicità, dall’eros che si fa carne e penetrazione di cuori e di corpi ma oltre ad essere questa, per noi, la passione è stata ed è la rivelazione della croce, il superamento del peccato, la solitudine di uno scrittura che conosce la difensiva delle partenze e il gioco dei ritorni. 

La passione non è soltanto amore e morte. È anche il calvario e forse il tradimento consumatosi tra gli ulivi del Getsemani. Ma quale Cristo avrebbe avuto voce senza la figura di Giuda e Giuda avrebbe avuto un nome nella spirale della rivelazione di Cristo senza la capacità di Claudia nel cercare di convincere Pilato? Abbiamo perso anche il senso della persuasione perché si è interrotto il dialogo e lo scontro tra Cristo e Giuda. Che cosa ha significato il suicidio di Giuda? E senza questo suicidio il disegno della storia occidentale si sarebbe posto il problema della vita violata e della morte inviolabile nell’intreccio tra Oriente e Mediterraneo? La letteratura non conosce la teologia, non la può conoscere, non la deve conoscere e tanto meno deve pretendere di entrare tra le maglie della teologia. Perché la letteratura è mistero, è l’indefinibile mistero che circonda la vita dei mortali e pone i personaggi nell’immortalità del mito. 

Pensiamo ai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Il limite tra mortalità e immortalità in una grecità assoluta in cui il mistero è divino ma non cristiano è un inciso che resta. La nostra temperie ha avuto la capacità di sconfiggere anche il limite realtà – mito lungo le sponde della mortalità – immortalità. E tutto questo non è forse dovuto ad un vuoto nel quale il cosiddetto modello progressista ha preso il sopravvento? L’età del progresso non è l’età della ragione. L’età del progresso si è trasformata, senza i codici di ciò che della tradizione si deve salvare, nell’età del consumismo conformistico. 

Le meccaniche della scrittura possono essere liturgia nell’incoerenza dei linguaggi ma non possono fare a meno di quella tradizione fatta di costante testimonianza tra l’essere e il tempo. In questo essere il tempo si inserisce nello spazio interminabile e indefinibile che diventa la cifra di una poetica che Bachelard ha definito come la poetica dello spazio. Dovremmo forse recuperare questa poetica dello spazio in una solitudine dechirichiana che ci dovrebbe permettere di vivere il grido della pazzia tra i colori di Van Gogh e lo sguardo straziante di Munch. Ormai non siamo più uomini del perdono. Siamo stati perdonati ma non condannati. Siamo in uno stato di perenne processo. Perdono? 

Ci poniamo davanti a questa parola perplessi, sgomenti e restiamo in attesa, ma dovremmo poter sconfiggere l’origine del peccato con le parole del Cristo pronunciate a Maria Maddalena. Maria Maddalena cammina tra di noi e senza alcun peccato ma in un processo che chiede una riabilitazione che non potrà esserci perché mai è stata condannata perché mai ha commesso peccato. Il peccato non esiste. A volte la contemplazione ci viene in aiuto. Il cristianesimo deve sconfiggere il senso del peccato che ci ha instillato perché dovrebbe vivere invece in una costante dimensione di grazia dentro il segno della contemplazione che tocca la spiritualità. 

La contemplazione non è un miraggio ma non è neppure il restare seduti su uno scoglio e osservare semplicemente le onde di un mare che cercano di ammorbidire la roccia. L’essere contemplanti, dunque, non è soltanto, l’essere pensanti. E quello che riesci a vedere al di là della linea di congiunzione tra il cielo e il mare. E sapere che ogni attesa non è una vana pretesa ma è cercare che qualcosa possa toccare il silenzio. L’essere contemplante è il gioco di una rivelazione che non smette la pratica di una alchimia antica e misteriosa che solo gli sciamani in alcune culture possono tramandare. Tramandare è vivere la tradizione dell’antropologia.

Abbiamo bisogno di questo forse? Ma di cosa necessita questo tempo agonizzante e moderno? Non siamo intellettuali ciechi, eppure abbiamo sempre creduto alla forza di Tiresia, ma non siamo degli indovini perché nella nostra storia – tempo c’è il destino che guida i passi della profezia. Come Virgilio, ma viaggiatori come Ulisse, traditi e traditori ma profeti, come avrebbe detto Ezra Pound. 

Gli scrittori sono i viandanti tra le pieghe del sogno. Resteranno ancora viandanti per porgere a chi ascolta la follia o quella pazzia degli amanti che si sentono unici nei segreti ma i segreti sono sempre segni rivelati. E la passione che noi stessi abbiamo raccontato e che raccontiamo non è soltanto quella di una sensualità trafitta dalla fisicità, dall’eros che si fa carne e penetrazione di cuori e di corpi ma oltre ad essere questa, per noi, la passione è stata ed è la rivelazione della croce, il superamento del peccato, la solitudine di uno scrittura che conosce la difensiva delle partenze e il gioco dei ritorni. 

La passione non è soltanto amore e morte. È anche il calvario e forse il tradimento consumatosi tra gli ulivi del Getsemani. Ma quale Cristo avrebbe avuto voce senza la figura di Giuda e Giuda avrebbe avuto un nome nella spirale della rivelazione di Cristo senza la capacità di Claudia nel cercare di convincere Pilato? Abbiamo perso anche il senso della persuasione perché si è interrotto il dialogo e lo scontro tra Cristo e Giuda. Che cosa ha significato il suicidio di Giuda? E senza questo suicidio il disegno della storia occidentale si sarebbe posto il problema della vita violata e della morte inviolabile nell’intreccio tra Oriente e Mediterraneo? La letteratura non conosce la teologia, non la può conoscere, non la deve conoscere e tanto meno deve pretendere di entrare tra le maglie della teologia. Perché la letteratura è mistero, è l’indefinibile mistero che circonda la vita dei mortali e pone i personaggi nell’immortalità del mito. 

Pensiamo ai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Il limite tra mortalità e immortalità in una grecità assoluta in cui il mistero è divino ma non cristiano è un inciso che resta. La nostra temperie ha avuto la capacità di sconfiggere anche il limite realtà – mito lungo le sponde della mortalità – immortalità. E tutto questo non è forse dovuto ad un vuoto nel quale il cosiddetto modello progressista ha preso il sopravvento? L’età del progresso non è l’età della ragione. L’età del progresso si è trasformata, senza i codici di ciò che della tradizione si deve salvare, nell’età del consumismo conformistico. 

Le meccaniche della scrittura possono essere liturgia nell’incoerenza dei linguaggi ma non possono fare a meno di quella tradizione fatta di costante testimonianza tra l’essere e il tempo. In questo essere il tempo si inserisce nello spazio interminabile e indefinibile che diventa la cifra di una poetica che Bachelard ha definito come la poetica dello spazio. Dovremmo forse recuperare questa poetica dello spazio in una solitudine dechirichiana che ci dovrebbe permettere di vivere il grido della pazzia tra i colori di Van Gogh e lo sguardo straziante di Munch. Ormai non siamo più uomini del perdono. Siamo stati perdonati ma non condannati. Siamo in uno stato di perenne processo. Perdono? 

Ci poniamo davanti a questa parola perplessi, sgomenti e restiamo in attesa, ma dovremmo poter sconfiggere l’origine del peccato con le parole del Cristo pronunciate a Maria Maddalena. Maria Maddalena cammina tra di noi e senza alcun peccato ma in un processo che chiede una riabilitazione che non potrà esserci perché mai è stata condannata perché mai ha commesso peccato. Il peccato non esiste. A volte la contemplazione ci viene in aiuto. Il cristianesimo deve sconfiggere il senso del peccato che ci ha instillato perché dovrebbe vivere invece in una costante dimensione di grazia dentro il segno della contemplazione che tocca la spiritualità. 

La contemplazione non è un miraggio ma non è neppure il restare seduti su uno scoglio e osservare semplicemente le onde di un mare che cercano di ammorbidire la roccia. L’essere contemplanti, dunque, non è soltanto, l’essere pensanti. E quello che riesci a vedere al di là della linea di congiunzione tra il cielo e il mare. E sapere che ogni attesa non è una vana pretesa ma è cercare che qualcosa possa toccare il silenzio. L’essere contemplante è il gioco di una rivelazione che non smette la pratica di una alchimia antica e misteriosa che solo gli sciamani in alcune culture possono tramandare. Tramandare è vivere la tradizione dell’antropologia.

Abbiamo bisogno di questo forse? Ma di cosa necessita questo tempo agonizzante e moderno? Non siamo intellettuali ciechi, eppure abbiamo sempre creduto alla forza di Tiresia, ma non siamo degli indovini perché nella nostra storia – tempo c’è il destino che guida i passi della profezia. Come Virgilio, ma viaggiatori come Ulisse, traditi e traditori ma profeti, come avrebbe detto Ezra Pound. 

https://antichecuriosita.co.uk/destrutturalismo-e-contro-comune-buon-senso-punti-fermi/

https://www.saatchiart.com/maryblindflowers

 

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