La nobile arte di amare sempre amore

La nobile arte di amare sempre amore

La nobile arte di amare sempre amore

Di Pierfranco Bruni©

L’attesa, tecnica mista su carta, 42 x 30 cm. by Mary Blindflowers©

 

 

Anche intorno a Le metamorfosi di Ovidio sia D’Annunzio che Dante scavano sino a recuperarne quella liricità latina che ha segni di una marcata ironia. D’annunzio lo vive profondamente e Ovidio rappresenta non solo metaforicamente, bensì letterariamente in termini estetici, il fuoco, il piacere, il trionfo della morte e il notturno. Per D’Annunzio Ovidio resta un maestro.

Poesia è liricità ed estetica: “Le tessitrici intrecciano qua e là/dei fili d’oro e sulla tela intanto/vanno prendendo forma antiche storie”.

Nelle Metamorfosi l’amore ha voce di vento e di cielo: “Intanto però una gran fiamma si accende nel cuore della figlia del re, la quale dopo avere a lungo lottato, quando vede di non poter vincere con la ragione quella folle passione, dice: ‘Invano, Medea, cerchi di resistere: deve esserci qualche dio che si oppone. Strano comunque se non fosse questo (o almeno qualcosa di molto simile a questo), quel sentimento che è chiamato amore’”.

Ancora più melanconicamente lacerante è il dire di Filemone a Bauci, sempre da Le metamorfosi: “Chiediamo di essere sacerdoti e guardiani del vostro tempio, e poiché siamo vissuti d’accordo tanti anni, vorremmo andarcene nello stesso istante: che io non debba mai vedere la tomba di mia moglie, né lei debba tumulare me’. Il desiderio fu esaudito. Furono custodi del tempio finché fu loro concesso di vivere. E un giorno, mentre sfiniti dagli anni, dalla vecchiaia, stavano per caso in piedi davanti alla sacra gradinata e rinarravano le vicende del luogo, Bauci vide Filèmone coprirsi di fronde, il vecchio Filemone vide coprirsi di fronde Bauci. E mentre già una cima cresceva sui loro due volti, continuarono a scambiarsi parole, finché poterono, e ‘Addio, mia metà” dissero nello stesso momento, e la scorza velò e suggellò in uno stesso momento le loro bocche’”.

Ovidio appartiene sostanzialmente a quella scuola poetica di baci e di strazi, di abbracci e di distacchi che gli fa dire con molta disinvoltura nelle Elegie: “…vorrei strappare baci mentre canta”. Oppure nell’Ars Amandi: “Non conviene,/credimi,/accelerare il gaudio estremo,/ma lentamente devi ritardarlo/con raffinato indugio. E quando il luogo/tu scoprirai su cui goda carezze/più che altrove da te, vano pudore/non freni le tue magiche carezze”. Ma nella sua poetica si intrecciano tradizione lirica greca e formazione latina.

Il mondo della poesia mediterranea è tutto un intrecciare di modelli ed elementi ai quali soprattutto il Novecento poetico italiano, in quella poesia rarefatta o nel verso d’amore, ritorna costantemente. Nato a Sulmona nel 43 a. C. viene esiliato sul Mar Nero, a Tomi, nell’8 d. C. Vi muore nel 17 d. C.

Tra i poeti che vivono Ovidio nel Novecento c’è Ungaretti. Quell’Ungaretti dei fiumi che trasporta la roccia e il deserto nelle acque. La VI Elegia di Ovidio è stata ben studiata da Ungaretti. In Ovidio si ascolta: “O fiume dalle rive fangose coperte di canne, m’affretto/alla mia donna: arresta per un po’ le tue acque”.

I fiumi di Ungaretti sono le memorie credute perse, le memorie come le donne che hanno attraversato le nostre vite. E le quattro ossa di Ungaretti sono la visione metafisica di Ovidio quando recita: “Oh, le mie ossa fossero state raccolte e composte/nel paterno sepolcro quand’erano ossa di vergini”.

Nel lungheggiare dei nomi dei fiumi di Ungaretti c’è l’Ovidio che dice: “Mentre parlo il fiume è cresciuto di larghe onde,/il profondo alveo non contiene le acque sfrenate. (…)/Quale viandante assetato ha potuto allora berlo?/(…)A costui, folle, narravo gli amori dei fiumi!/Mi vergogno di avere pronunciato nomi così grandi./Guardando questo meschino, ho potuto ricordare/l’Acheloo e l’Inaco e fare il tuo nome, o Nilo!/Ma per i tuoi meriti, infausto torrente, ti auguro/brucianti estati e inverni sempre secchi”.

La fluidità dell’acqua è come l’arte dell’amore. Una metafora che diventa un gioco straziante in Ovidio e in Ungaretti uno strazio di giochi in un vissuto di linguaggi che hanno sempre i segreti di un porto sepolto.

Ma Ovidio conosce molto bene l’arte della simulazione che è quella di Ulisse, l’amante di Circe, di Calipso, di Nausicaa e lo sposo di Penelope che alla fine la vorrebbe anche come amante e non solo come sposa. È qui l’arte d’amore. Ovvero l’arte di amare l’amore come se fosse una perenne illusione, ma di illusioni, sa bene Ovidio, è fatta la vita.

Nei sui Remedia amoris suggerisce: “Sai che cosa ostacola più di tutto i nostri sforzi? Te lo dirò, benché ognuno abbia bisogno di farne esperienze: indugiamo perché speriamo sempre di poter essere amati ancora. Ciascuno di noi è indulgente con se stesso. Abbiamo tutti bisogno di illuderci”. Già, tutti abbiamo bisogno di cogliere, anche nelle arti dell’amore, l’illusione.

L’illusione è un trucco? Come in Ulisse che cerca l’imperfezione per comprendere dove possa abitare la perfezione. Ovidio: “Il marinaio esulta dopo che con cautela ha superato Scilla. Tu evita i luoghi che ti sono stati molto cari: per te sono come i pericolosi fondali delle Sirti, come gli scogli degli Acroceraumi o come la mostruosa Cariddi che vomita le acque”.

Bisogna evitare i ricordi per non lasciarsi aggredire dalla nostalgia perché è la nostalgia che apre le vie alla finzione. Così l’amore. Una volta che è finito bisogna trovare i rimedi per allontanarsi da quel tempo e il tempo cura con il rimedio delle dimenticanze che scorrono negli anni e si fanno trepidanti lontananze.

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