Jacques Derrida, Lo spergiuro

Jacques Derrida, Lo spergiuro

Jacques Derrida, Lo spergiuro

Jacques Derrida, Lo spergiuro

Jacques Derrida, Lo spergiuro, credit Antiche Curiosità©

Mary Blindflowers©

Jacques Derrida, Lo spergiuro

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Jacques Derrida, Lo Spergiuro, il tempo dei rinnegati, rieditato da Castelvecchi e tratto da Le Cahier de L’Herne Derrida n. 83, è un libro deludente sotto ogni punto di vista. La tesi filosofica che sostiene come appiglio per parlare di letteratura, è debole. Non è nemmeno una tesi ma un’ovvietà riproposta e ristampata perché trattasi di noto accademico, altrimenti nessuno l’avrebbe pubblicata, perché così funziona il sacrario delle belle lettere, si ripropone all’infinito il déjà-vu purché sia noto. Il testo inizia con una citazione dal romanzo di Henry Thomas, Lo spergiuro: “si figuri che non ci pensavo”:

Immaginate la scena, ora. Immaginatevi questo scambio. Dubitate se credere o non credere. Non sapete più se dovete credere a qualcuno o, cosa ancora differente, credere in qualcuno, o amcora credere a cio che dice qualcuno quando risponde senza rispondere veramente: “figuratevi che non ci pensavo”.

A questo punto si chiede se ci siamo dimenticati di pensare, ossia se la frase tradisca una certa trascuratezza del dovere più che un’amnesia. Il soggetto pensa che avrebbe dovuto pensare, per non ignorare la legge. Il pensare di non pensare suona dunque come una giustificazione di innocenza rispetto al tradimento della legge stessa. L’autore inizia dunque a esplicitarci l’ovvio ma dottamente. In sintesi la memoria, dice, è un imperativo etico previsto dalle legge ma non sempre dalla psico-fenomenologia dell’io, soggetto alla mutevolezza del tempo. Mentre la legge che pretende un giuramento è una, il soggetto, l’io, muta, perché si viene a trovare in circostanze diverse scaturite dal trascorrere del tempo e la promessa fatta secondo la legge, può essere valida oggi ma non domani, ergo interviene la giustificazione del non ci avevo mica pensato, non potevo prevedere che, etc. etc. Derrida chiama dunque egologia questo movimento ossia il percorso dell’io che muta in relazione alla promessa, mutevolezza da cui nasce lo spergiuro. In poche parole l’autore complica il semplice. Perfino un incolto sa perfettamente queste cose ed è in grado di capire anche a livello intuitivo il gap tra la legge e le esigenze dell’io, senza sentire nemmeno la necessità accademicomica di parlare pomposamente di egologia applicata o di psico-fenomenologia dell’io. Derrida impiega 40 pagine a comunicare al lettore ovvietà, a fare domande retoriche e a ripetersi (il libro è molto ripetitivo), per poi addentrarsi più specificamente dentro l’analisi dell’opera letteraria, un’analisi che fin dall’esordio pecca di presunzione, affermando verità apodittiche con saccenza da profeta. Per esempio, sostiene che per leggere il titolo de Lo spergiuro ci sono tre letture possibili e le elenca snocciolando ancora ovvietà:

1 In primo luogo… la finzione, il romanzo stesso… il modo in cui il romanziere… tradisce il suo amico…

2 la promessa tradita, mancata, non mantenuta…

3 il contenuto del racconto centrale…

Non occorreva un saggio per capire queste cose. Ma l’aspetto più fastidioso del libro non è l’ovvio ma l’autoincensamento continuo con esplicite lisciate agli amici accademici che interrompono in modo del tutto inopportuno il ragionamento e sono soltanto indice di un sistema che gira ininterrottamente su se stesso, quello degli accademici che sponsorizzano accademici e loro amici di casta:

Inoltre, non mi sento capace di misurare qui la mia ammirazione e gratitudine per Hillis Miller… trent’anni di amicizia senza ombre di lavoro in comune… nelle stesse Johns Hopkins, Yale, Università di California, Irvine, tanti incontri privati e pubblici, tanti convegni… l’altro amico… Paul de Man…

Verso la fine degli anni Settanta a Yale, Paul de Man mi disse un giorno pressappoco questo (non mi ricordo il nesso che portò a questo discorso ma noi dovevamo parlare… di Henry Thomas, uno degli amici della mia amica Paule Thévenin): “… leggete Holderling in America. Henry Thomas che ho conosciuto qui in America, ha pubblicato questo testo sul Mercure de France…”

Il mio amico Paul de Man, mi confidò un giorno di essere stato anche l’amico di Henry Thomas e che se volevo conoscere qualcosa della sua vita avrei dovuto leggere Hölderlin in America…

Gli amici degli amici che consigliano la lettura dei libri degli amici che parlano degli amici, la letteratura è servita. Questa mentalità perdura. Derrida è citatissimo ma si guardano bene dal sottolinearne le logiche accademicomiche che poi sono tragiche. Le emorragiche virtù d’ogni letteratura si basano sul salasso costante del senso di inclusività di ogni talento che non faccia parte del circoletto amicale. Mi domando, in un’epoca in cui si parla tanto di inclusivismo, di diritti per tutti, di uguaglianza, di politicamente corretto, di valorizzazione dell’arte, di tristezza per le librerie che chiudono, etc, etc., è troppo chiedere di spezzare circoletti che fanno del privilegio e del familismo la regola costante? È troppo chiedere di leggere un autore senza omissioni? È troppo chiedere di leggere criticamente un testo? O dobbiamo tutti adeguarci alla logica dell’amico dell’amico e sottometterci alla mannaia dei privilegiati? È troppo chiedere che anche chi non è amico di nessuno, possa essere degno di una minima considerazione nel mondo fatato delle belle lettere? Sì, per come vanno le cose, tutto questo è veramente pretendere troppo, una cosa da sognatori che al risveglio si trovano costantemente delusi da tutto il finto apparato che chiamano cultura.

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Rivista Destrutturalismo

Libri Mary Blindflowers

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Comment (1)

  1. Mariano Grossi

    ¡A los iguales que Derrida
    démonos la desoedida!

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