Giovani, boomer, la scrittura

Giovani, boomer, la scrittura

Giovani, boomer, la scrittura

Giovani, boomer, la scrittura

Vecchi e giovani, credit Mary Blindflowers

 

Giovani, boomer, la scrittura

Paolo Durando©

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Esiste un momento nella vita di ciascuno in cui si entra nella “linea d’ombra”, la fase che segna un passaggio, un abbandono, come rappresentato dal romanzo di Conrad in cui il primo ufficiale in servizio su una nave nei mari d’oriente prende coscienza di avere oltrepassato la soglia della prima gioventù e di dover assumersi nuove e impegnative responsabilità.
In questi tempi in cui i nati tra gli anni ’50 e ’60 vengono sprezzantemente messi a tacere con l’ “Ok, boomer” di prammatica, alcuni di loro si sentono chiamati a voler essere in qualche modo all’altezza del presente, cercando di capire meglio le ultime generazioni, di allontanare le riserve, i pregiudizi.
Perché qualche diffidenza, in effetti, l’abbiamo. Ci sembra di osservare nei giovani un progressivo allontanarsi dai libri, dalla lettura. Constatiamo che per loro i quotidiani e le riviste non esistono, che si informano esclusivamente su web e social, che non sanno neppure più scrivere in corsivo. Credono di essere trasgressivi (si pensi ai Maneskin) quando, tutt’al più, riescono a imitare esperienze del passato, a citarle, ad esasperarle. Si dedicano al rap e al trap e via discorrendo.
Ovviamente, immagina il boomer medio, non saranno tutti così. Ci sarà, qualcuno ancora capace di leggere Tolstoj, Joyce o, magari, pure di scrivere.
Inoltre ci siamo resi conto, man mano che l’economia declinava e poi, in modo eclatante, durante la pandemia, che le difficoltà, le limitazioni di prospettiva, e poi le rinunce alla spontaneità e socialità a cui questi ragazzi sono stati obbligati, con conseguenze a lungo termine che ancora non conosciamo, non avevano mai fatto parte della nostra esperienza storicamente privilegiata (siamo stati i principali beneficiari dei “trente glorieuses” e di una solidità senza precedenti del welfare) e sicuramente rappresentano un punto di non ritorno. Chi discettava, almeno fino al 2019, di “società senza trauma”, è stato costretto a rivedere le sue coordinate.
Quando i giovani erano molti di più non si poteva ignorarli. Oggi lo si può fare anche perché, in genere, non amano troppo esporsi. Le ultime generazioni paiono essere molto ritirate nella nicchia autosufficiente delle camerette, quando non sconfinano nella condizione degli “ hikikomori”.
La boomer d’eccezione Nicoletta Vallorani, scrittrice ben nota nel campo della fantascienza, ha affrontato nel suo ultimo romanzo, “Noi siamo il campo di battaglia”, proprio la questione dei giovani e della loro marginalizzazione da parte di un mondo adulto saccente e numericamente in maggioranza. La Vallorani decide di prendere posizione, si schiera convintamente dalla loro parte. In una Milano del prossimo futuro, devastata dal cambiamento climatico (il mare avanza ingoiandosi via via la pianura Padana) e da ricorrenti pestilenze (evidente il richiamo alla storia recente), i giovani decidono di occupare spazi pubblici, soprattutto le scuole che sono state chiuse a tempo indeterminato, creando delle comuni, ritrovando il gusto dello stare insieme e della lotta senza quartiere contro il potere che, con guanti di velluto e piombo, intende mantenere le gerarchie sociali ed economiche vigenti, con la più brutale repressione. Ad appoggiarli troviamo una “prof”, che si unisce a una di queste comuni, contribuendo, tra l’altro, alla coltivazione di un orto, simbolo del “vivaio” che loro intendono essere, in nome di una diversa prospettiva sul futuro. Ogni membro della comune si prende a cuore la situazione degli altri, ciascuno portatore di una storia familiare ed esistenziale difficile.
Del resto la Vallorani stessa è insegnante e ritiene di dovere molto ai ragazzi e al loro sguardo.
“Insegnare ha sempre come soggetto un noi,”dichiara nella post-fazione. “Dal noi dei miei studenti ho imparato che da soli e senza sogni non si conclude nulla, e si nasce e si muore senza lasciare traccia”.
Il romanzo è scritto con uno stile allusivo, ambienti e avvenimenti sono piuttosto evocati che descritti. Si sarebbe voluto, in effetti, vedere un po’ di più questa Milano di domani, con scenari più dettagliati.
Compaiono certamente i nomi di vie e piazze, la toponomastica ha un ruolo, Porta Venezia, Loreto, ma restano come lacerti, residui di rovine anche linguistiche.“Fuori Porta Vittoria, in piedi nel centro di una strada disabitata, ricordo di aver cercato di annusare la salsedine che di certo doveva esserci nell’aria,” afferma, ad esempio, la Prof., tra trasognatezza e riconoscimento, che a Milano – da sempre, e nell’accompagnamento della figlia Penelope fino alla sua tragica morte – ha affidato la rappresentazione e realizzazione della propria vita.
Non dobbiamo dimenticare quello che per l’Italia Milano rappresenta, ovvero la punta più avanzata della tecnologia e delle tendenze del presente, l’ambito amato e spesso odiato in cui fare davvero i conti con se stessi, la società e le sue proteiformi aspettative.
Le speranze della Prof. si riassumono nell’augurio che i ragazzi “abbiano attraversato uno strato della cipolla del tempo e possano fertilizzare il mondo davvero come volevano”.
Questa parola chiave, “fertilizzare” fa il paio con l’idea del “vivaio”.
Nel complesso la scrittura affascina, attraverso il montaggio non lineare delle sequenze narrative, in un’indeterminatezza lirica in cui tutto si può intravedere e, soprattutto, in cui torna, tra rabbia e amore nascosto, il rimosso dei nostri anni, che molto ha a che fare con le nuove generazioni e il modo in cui non ci curiamo del loro destino.
E a questo punto possiamo tornare alla domanda a cui alludevamo in partenza: ma i giovani scrivono? Esiste un futuro per la narrativa pura?
Per anni, tra insegnanti, si sono discusse le tesi di chi ci informava che le modalità di pensiero e di apprendimento degli allievi stavano cambiando irreversibilmente, che una mutazione antropologica era in corso. Dai tempi di Pasolini, si sa, l’idea della “mutazione antropologica” esercita una costante suggestione “narrativa” presso gli intellettuali. Ci ripetevano che la modalità di pensiero prevalente non era più quella consequenziale, bensì associativa, che l’ipertesto avrebbe avuto magnifiche e progressive sorti e via discorrendo. Chi si misurava poi, realmente, con i ragazzi, si accorgeva che il pensiero consequenziale, lungi dall’essere scomparso, si era persino ingessato. Gli studenti esigevano di far seguire una pagina all’altra, una frase all’altra, come una volta. E, addirittura, se l’esposizione dei contenuti non seguiva un rigido ordine logico/cronologico, potevano andare in confusione. L’intrecciarsi dei tempi non si confaceva loro. Finezze come il trapassato prossimo o il futuro anteriore si avviavano all’estinzione.
Persino col computer poteva darsi il caso che un teenager non facesse faville. A volte sessantenni di buona volontà lo superavano… Certo, non era il caso di generalizzare. Piedi di piombo, prima di correre a conclusioni affrettate!
Per tentare, dunque,di vederci più chiaro nel cruciale rapporto tra giovani e scrittura narrativa, possiamo leggere l’antologia under 25 curata da Matteo Bianchi, “Quasi di nascosto”. Il titolo intende richiamare proprio la scarsa propensione di chi inizia oggi a scrivere a dichiararlo, come se si trattasse di un’attività in effetti desueta e bizzarra. L’iniziativa si richiama a quella analoga di Vittorio Tondelli negli anni ’80. Anche il sottoscritto, tra l’altro, è presente nell’elenco dei partecipanti alla selezione per “Giovani blues”, pubblicata da Il lavoro editoriale nel 1986.
Molta acqua è passata sotto i ponti. Allora la letteratura aveva ancora uno statuto forte, nella scuola costituiva l’ossatura di base per la costruzione di un’identità culturale e anche politica. Non c’era la concorrenza di social, ibridazioni, contaminazioni, anche se di quest’ultime già si parlava. L’oggetto libro appariva ancora, di per sé, una realtà immune al passare del tempo.
Vincendo l’istintiva diffidenza, abbiamo quindi iniziato la lettura di questa antologia anche spinti da una nostalgia per quello che siamo stati, o che avremmo potuto essere.
Alla fine dell’esperienza è possibile rispondere positivamente alla domanda da cui si era partiti. Sì, alcuni giovani scrivono ancora storie, e non solo nei termini di “sceneggiature” per film e serie tv. Torna alla mente l’affermazione di Calvino nella premessa alle “Lezioni americane”: “La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici”.
Questi racconti, sono in verità, scritti benissimo. I dodici giovani selezionati appaiono tutti narratori esperti, navigati.
I racconti trattano in modo maturo e distante da luoghi comuni, di argomenti cruciali nei nostri anni: la rivalità erotica tra amiche teen-agers, il gusto per botti e petardi, per il casino fine a se stesso, l’incontro in un parco metropolitano tra un ragazzo italiano e una profuga da Kiev, un amore gay che sboccia in sordina in una località di mare, un approdo alla transizione sessuale, passando dallo sguardo sul proprio corpo a quello sui corpi altrui, un incontro di sesso estivo alla Bukowski, tra canicola e alcol, le false compensazioni pseudo-identitarie di chi porta nella propria pelle lo stigma di un altrove, la persistenza cruda delle classi sociali dietro le apparenze ridanciane, l’esperienza del carcere, l’amore tra un ragazzo e una donna matura.
Un paio di racconti si distanziano dall’attualità, trattando uno di tensioni e aspirazioni più o meno dissacranti in un educandato femminile in un rarefatto ‘900, un altro di un mondo religioso arcaico, tra riti e sacrifici stranianti, nella resa efficace quanto consapevolmente perseguita di un’antropologia “altra”.
C’è la sensazione, e questo certo non sorprende, di una maggiore “fluidità” dei confini di genere, perlomeno in certi ambienti e situazioni, e una modalità finalmente più autocosciente, più autocritica nell’essere maschi, che non significa più, ad esempio, “starci” sempre e comunque.
Conclusa la lettura di questa raccolta, se ne trae, in definitiva, la conferma che viviamo in un contesto che, tanto sul piano socioeconomico che su quello culturale, è caratterizzato dalla disuguaglianza.
Gli attuali circa ventenni o sono effettivamente impoveriti sul piano degli strumenti cognitivi e interpretativi o, al contrario, sono molto avanti, raggiungendo un grado di competenza e di specializzazione, in ogni settore, decisamente superiore a quello che potevamo raggiungere noi tra gli anni ’60 e ’80. Non per nulla, in tempi di vanificazione di valori e ideologie, “competenza”, con la sua aura di oggettiva, neutra performance, è una parola chiave, in primis in campo didattico.
Una perplessità, allora, si insinua, subdola e insistente. Si tratta di testi di buona qualità, su questo non ci piove, ma… insomma, si assomigliano molto. L’approccio lessicale, strutturale e immaginativo appare, nel complesso, lo stesso. Si percepisce un sostrato omogeneo. Ci si può chiedere, quindi, quale sia stato il ruolo dell’editing in questi racconti. E leggendo i profili degli autori ci si accorge che hanno in maggioranza percorsi culturali solidi in ambito umanistico e le scuole di scrittura, come la Holden di Baricco, fanno capolino tra una laurea e un master.
Ecco quindi che iniziamo a percepire, dietro la qualità di queste proposte molto selezionate, una delle diramazioni seducenti, falsamente rassicuranti, non esenti da rischi, dell’omologazione.
E viene il desiderio, a questo punto, di riconnettersi a un tempo in cui l’offerta letteraria e il gusto erano meno “formattati”, di immergersi, che ne so, nella scrittura obliqua e omissiva di Federico Tozzi, nelle eleganti circonvoluzioni sintattiche di Anna Banti, nelle raffinatezze estetico-espressive di Maria Bellonci, nella spigolosità appassionata di Guido Morselli. Così, tanto per citarne alcuni, quasi a caso. Per riappropriarsi di una letteratura davvero segnata dalla differenza individuale, dal corpo, dal respiro. Di una scrittura spuria, persino difettosa, sbilenca, magari “lenta” (orrore!) ma, alla fine, più umanamente e intrigantemente rivelatrice.

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Libri Mary Blindflowers

DESTRUTTURALISMO Punti salienti

 

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